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LUIGI SALVATO PROCURATORE GENERALE CORTE DI CASSAZIONE
La riforma della separazione delle carriere, «nel testo approvato a gennaio, non mi sembra ponga a rischio l’indipendenza del pm. La possibilità che costituisca l’anticamera della sottoposizione al potere esecutivo è una congettura che potrà rivelarsi vera o falsa, ma in quanto congettura non ha la consistenza e la concretezza per favorire un dibattito serio. Restano tuttavia i miei dubbi sulla sua congruità rispetto alla finalità che si intende perseguire».
A dirlo è il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato che a poche settimane dalla fine della sua esperienza nella magistratura analizza lo “stato di salute” della magistratura mettendo in guardia dai pericoli del populismo giudiziario. Dalla necessità di un’interpretazione rigorosa della legge fino ai rischi del processo mediatico e alle riforme in corso, Salvato sottolinea come «alla crisi di fiducia la magistratura può porre rimedio dimostrandosi consapevole del primato della legge, senza indulgere in interpretazioni “creative” e rispettando le regole deontologiche che si impongono a chi esercita un potere terribile». E non manca uno sguardo attento sul carcere: «Soltanto una detenzione che avvenga in condizioni rispettose della piena dignità del detenuto - spiega al Dubbio - può garantire il conseguimento della finalità della pena, di retribuzione e di rieducazione».
Procuratore Salvato, nella relazione redatta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario lei ha parlato di una “crisi di fiducia” che investe la magistratura. Quali pensa siano le cause principali di questa crisi e come la si può affrontare concretamente?
Un’evoluzione della società che fa emergere nuovi bisogni ai quali non sempre il legislatore dà pronte risposte, un sistema delle fonti, “interne” ed “esterne”, sempre più complicato, l’applicazione dei valori e non solo delle regole, la dilatazione del potere di interpretare la legge. Sono queste alcune delle ragioni che, anche per il convincimento che il giudice debba fare di tutto per dare la soluzione “più giusta”, in qualche caso hanno fatto scambiare la centralità della giurisdizione con l’avvento di una nuova etica pubblica e talora possono avere indotto a forzare il principio di legalità, mettendo a rischio l’equilibrio tra i poteri ed alimentando una “crisi di fiducia”. La Magistratura può porvi rimedio, dimostrandosi consapevole del primato della legge, anche se letto attraverso quello della Costituzione, senza indulgere in interpretazioni “creative” e rispettando le regole deontologiche che si impongono a chi esercita un potere terribile: rigore dei comportamenti; etica del dubbio; dialettica con l’Avvocatura; ragionevole osservanza dei precedenti. Alla Politica spetta, attraverso il Parlamento, dare risposte ai bisogni della società con leggi chiare, ragionevoli ed inequivoche, senza gravare il processo penale di funzioni improprie, senza indirette rivalse e denunce di contraffazione dei poteri legate a singoli, contingenti, episodi, le quali non giovano all’equilibrio tra poteri indipendenti, ma che devono riconoscersi reciprocamente.
Tra i vari temi ha anche menzionato il rischio del “populismo giudiziario” e della tendenza di alcuni pm a lasciarsi attrarre dai riflettori mediatici. Quali effetti possono avere sulla giurisdizione? Come è possibile porvi rimedio?
Il rischio del “populismo giudiziario” nasce quando una parte della Magistratura ed anche della Politica e dell’opinione pubblica iniziano a credere che il consenso sulle decisioni sia la fonte della legittimazione del potere giudiziario. Questo si radica invece nella legalità, nell’autorevolezza nello stabilire la verità giudiziaria, attestata dalla motivazione dei provvedimenti, nella rigorosa applicazione del giusto processo. I magistrati, ma non solo, non devono farsi attrarre dall’idea che il consenso su un provvedimento, alimentato anche dalla “umana vanità dell’apparire” e da un’errata attenzione ai profili mediatici, valga a legittimarlo. Ho già accennato ad alcuni rimedi per evitare conseguenze devastanti per la giurisdizione. Aggiungo, quanto ai pubblici ministeri, che la riforma Cartabia, stabilendo più stringenti presupposti per l’iscrizione del procedimento penale ed il nuovo parametro della “ragionevole previsione della condanna”, impone un nuovo modo di esercitare la funzione requirente. Ha esaltato la funzione del pm di “organo di giustizia”. Occorre allora acquisire piena consapevolezza di tale “nuovo” ruolo. È necessario che il processo venga sollecitato, nel rigoroso rispetto del principio di legalità, con criteri convergenti all’interno di uno stesso e dei diversi uffici, evitando la personalizzazione delle funzioni e comprendendo che l’indipendenza “interna” può e deve essere modulata in modo diverso da quella del giudice.
Cosa pensa del fenomeno del “processo mediatico”? Crede che la magistratura stia affrontando adeguatamente i rischi derivanti dalla crescente influenza dei media, soprattutto i social network, nell’influenzare l’opinione pubblica sui casi giudiziari?
I rischi del “processo mediatico” sono diventati dirompenti al tempo di Internet e dei social media. Hanno infatti determinato l’irrompere sulla scena di una smisurata giuria pubblica che, ha scritto Sammarco, vede il processo «come un lungo e a tratti noioso percorso burocratico per arrivare a definire qualcosa che nella coscienza collettiva è già certo». L’informazione professionale sempre più spesso viene, inoltre, confusa con la libera manifestazione del pensiero mediante i nuovi media. Siamo così ben oltre il controllo sociale sulla magistratura. Assistiamo all’affermarsi di uno schema che mette a rischio la verità giudiziaria - tale solo se accertata all’esito di un giusto processo di legge - e le stesse basi della nostra libertà. La questione è complicata. Per risolverla, non bastano le leggi, ma occorre una maturazione culturale, difficile anche per il convincimento, erroneo e devastante, che il processo mediatico pregiudica, ma talora può salvare. Nell’uso dei social media si impone ai magistrati massima moderazione, richiamata da norme nazionali e sovranazionali. Ad essi, in quanto cittadini, spetta la libertà di manifestazione del pensiero, ma questa incontra specifici, precisi limiti a tutela della fiducia nella magistratura. I magistrati devono essere consapevoli che, al tempo del web, opinioni diffuse nella rete compongono il “quadro probatorio” utilizzato dalla giuria pubblica di Internet e, per il ruolo che hanno, possono assumere un peso dirompente e, perciò, sempre si impone loro discrezione e moderazione.
In che modo i magistrati possono concretamente dimostrarsi più consapevoli della centralità del loro ruolo senza cadere nell’errore di perseguire obiettivi ideologici o sociali?
A questa domanda ritengo di avere già risposto. Aggiungo soltanto che la nozione di legge posta dall’articolo 101 ha assunto un nuovo significato, per l’esistenza di limiti fissati dalla Costituzione e dalle fonti esterne, che si impongono anche al Legislatore ordinario. L’articolo 101 ha tuttavia confermato il primato della legge. Ciò vuol dire che la scelta operata con l’interpretazione presuppone sempre un quadro di diritto positivo da leggere nel miglior modo possibile, che preesiste alla decisione e, quindi, non ha efficacia creativa. La Magistratura è sentinella del rispetto dei limiti che si impongono al Legislatore ordinario, presidiati infine dalla Corte costituzionale, ma il solo obiettivo che deve perseguire è applicare la legge, interpretandola, ma certo non “creandola”.
Giovanni Falcone esortava i magistrati a non confondere i processi con le crociate. Pensa che oggi, in qualche caso, si stia perdendo di vista questo principio?
Prima ho ricordato che la Magistratura deve dimostrarsi consapevole dell’essenzialità del proprio ruolo con umiltà, senza improprie finalità di redenzione sociale. Nell’ambito del diritto punitivo compito della magistratura è applicare la legge, accertare e giudicare i fatti-reato, configurati come tali dal legislatore. La rigorosa osservanza del principio di legalità e dei limiti dell’interpretazione, la consapevolezza del ruolo del pm, che non è organo al quale spetta la politica criminale, bensì è “organo di giustizia” nella dimensione cui ho accennato, insieme all’osservanza dei precetti deontologici possono scongiurare derive improprie. Purtroppo, dobbiamo constatare che la torsione verso un diritto punitivo etico ed un devastante “populismo giudiziario” sono alimentati da una certa parte dell’opinione pubblica, con una deriva che va contrastata anzitutto dai magistrati, mediante la rigorosa osservanza dei doveri che loro si impongono, ma con il concorso della politica e dalla più accorta informazione professionale.
Come possiamo assicurare che il potere legislativo non interferisca con l’indipendenza della magistratura e che il dialogo tra i due poteri sia costruttivo per il bene delle istituzioni?
La risposta è semplice. Basta rispettare ed applicare la Costituzione, che ha assicurato autonomia e indipendenza della Magistratura, ma ha ribadito il primato della legge, pur nella nuova accezione cui ho fatto riferimento. Il potere giudiziario, come gli altri pubblici poteri, è fondato sulla sovranità popolare, di questa è espressione la legge ed il suo esercizio è quindi ad essa sottoposto. La Costituzione non ha reso la Magistratura avulsa dall’ordinamento generale dello Stato ed ha scongiurato che costituisca e si ponga come un corpo separato. Con gli articoli 101, 104, 105, 107, 108 e 110 della Costituzione ha definito un sapiente sistema di raccordi tra ordine giudiziario, potere legislativo e potere esecutivo. È questo sistema che dobbiamo rispettare ed attuare, che prevede precisi strumenti di garanzia. Tra gli altri: il controllo di legittimità attribuito alla Corte di Cassazione, garanzia contro l’inesatta applicazione della legge e le derive creative dell’interpretazione; lo strumento del conflitto di attribuzione tra poteri dinanzi alla Corte costituzionale, garanzia contro indebiti sconfinamenti da parte della Magistratura. Centrale deve essere il dialogo, che vuol dire confronto anche franco, ma sereno, che non deve diventare mai scontro, nella consapevolezza che in un ordinamento democratico la dialettica tra istituzioni serve a trovare le soluzioni migliori, ferma la titolarità del potere di scelta in capo all’istituzione massima espressione della rappresentanza politica: il Parlamento, nell’osservanza delle procedure e di limiti stabiliti dalla Costituzione.
Il tema centrale nel panorama delle riforme è la separazione delle carriere. Davvero questa riforma mette a repentaglio l’indipendenza del pm?
A questa domanda ho dato risposta in una recente intervista e non ritengo di aggiungere nulla. Ribadisco che il disegno di legge costituzionale, nel testo approvato a gennaio, non mi sembra ponga a rischio l’indipendenza del pm. La possibilità che costituisca l’anticamera della sottoposizione al potere esecutivo è una congettura che potrà rivelarsi vera o falsa, ma in quanto congettura non ha la consistenza e la concretezza per favorire un dibattito serio. Pur essendo la riforma ammissibile dal punto di vista costituzionale e dell’ordinamento dell’Ue, restano tuttavia i miei dubbi sulla sua congruità rispetto alla finalità che si intende perseguire. Soprattutto, sulla sua idoneità a porre rimedio alle criticità del processo penale che indubbiamente sussistono, ma che avrebbero potuto e dovuto essere affrontate diversamente.
C’è forse un obiettivo più sottile, dietro la separazione delle carriere, e riguarda il peso dei requirenti all’interno della magistratura: più forti mediaticamente, controllano le correnti Anm e, attraverso i delegati di queste, lo stesso Csm, e in ultimi analisi la carriera dei giudici, col rischio di condizionarli. Condivide quest’analisi? Pensa che la riforma costituisca una contromisura adeguata?
La domanda è complessa, ma la risposta, almeno per me, è semplice. All’interno del Csm il peso numerico dei giudicanti è tale da scongiurare il rischio di un presunto strapotere dei requirenti, enfatizzato da una certa opinione. Francamente questo rischio mi sembra quasi una leggenda metropolitana. Nella mia esperienza di magistrato sia in varie funzioni ed uffici, sia in quella al Csm, presso la struttura del Consiglio e quale componente di diritto, non l’ho mai colto. Sarò stato distratto? Non credo, ma resta la difficoltà di confrontarsi con una mera congettura. La questione delle correnti non può essere affrontata nel breve spazio di un’intervista, mentre sul sorteggio mi limito a sollevare dubbi sulla congruità della regola uno vale uno, che tanti guasti ha già provocato, che non tiene conto né della specificità del ruolo e dei compiti - che richiedono competenza ed inclinazione che non necessariamente tutti hanno -, né della rilevanza costituzionale dell’organo, né della dubbia idoneità a porre rimedio alle distorsioni che si intendono correggere. Molto più da fare vi sarebbe sul piano ordinamentale, anche correggendo taluni errori della riforma Cartabia.
La riforma invocata dal mondo forense, e dal Cnf innanzitutto, è l’avvocato in Costituzione. Ritiene sia utile questo esplicito riconoscimento?
La Costituzione fa espresso riferimento agli avvocati ben quattro volte (artt. 104, comma 4, 106, comma 3, 135, comma 2, 135, comma 6). La funzione dell’avvocato è implicita, ma chiara nell’art. 24 e nelle sentenze della Corte costituzionale che hanno rimarcato l’essenzialità del ruolo della difesa tecnica e definito l’esigenza del difensore nel processo «assoluta ed inderogabile» (sentenza n. 498 del 1989). Un’ulteriore formalizzazione dell’Avvocatura nella Costituzione è ammissibile, ma forse non necessaria. È la figura dell’avvocato che legittima il giudice; solo dove c’è un avvocato può esservi un giudice ed insieme, ricordava Calamandrei, costituiscono «due forze equivalenti, le quali, operando su linee parallele (…), generano il moto, che dà vita al processo». Reale questione è, forse, quella di evitare la figura del giudice Ercole, alimentata dalla discrezionalità dell’interpretazione, che sembra renderlo unico padrone del diritto. Si tratta di questione assai complessa e qui posso solo richiamare l’attenzione sulla necessità di modifiche - mi riferisco soprattutto al processo civile – che evitino pregiudizi della dialettica in nome del tempo, che garantiscano il contatto diretto e scongiurino che il processo telematico alteri funzione e caratteri del processo. Mi permetta però di rivolgere un sincero ringraziamento a tutti gli avvocati con i quali ho avuto occasione di lavorare in quasi 45 anni di carriera. Ad essi devo moltissimo, non meno che ai colleghi. Con loro ho condiviso il peso della mia funzione; da loro ho imparato tanto, dal punto di vista tecnico, dell’equilibrio, della ragionevolezza, della necessità della spasmodica attenzione ai fatti, restando ammirato dalla passione con cui svolgono un lavoro difficile, oggi più di ieri.
Le carceri stanno vivendo, negli ultimi anni, un periodo terribile: è record di suicidi negli istituti penitenziari e le soluzioni prospettate riguardano più l’aspetto logistico che quello umano. Come si può affrontare questo fenomeno, alla luce anche dell’appello del Capo dello Stato, finora caduto nel vuoto?
Non ritengo di potere aggiungere nulla alle parole con cui il Capo dello Stato, nel recente discorso di fine anno, ha descritto e stigmatizzato il dramma della situazione carceraria. Ancora una volta dobbiamo essere riconoscenti al nostro Presidente, ascoltare il suo ammonimento ed operare insieme - Istituzioni, società civile, cittadini tutti - per dare soluzione ad un problema drammatico. La possibile soluzione vede avvinti l’aspetto logistico ed umano. Soltanto una detenzione che avvenga in condizioni rispettose della piena dignità del detenuto può garantire il conseguimento della finalità della pena, di retribuzione e di rieducazione.
È possibile pensare ad interventi come indulto e amnistia?
Papa Francesco, nella bolla di indizione Spes non confundit, ha proposto «ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi». Mi sembra difficile non condividere le parole del Papa. La nostra Costituzione, all’art. 79, prevede gli istituti dell’amnistia e dell’indulto e, quindi, rende possibile dare seguito alle parole del Santo Padre. La scelta è riservata al Parlamento. A questo solo spetta ogni determinazione, che potrà, ovviamente, come sempre negli ordinamenti democratici, alimentarsi di un dibattito che è necessario vi sia nel Paese. Dibattito che deve svilupparsi, tenendo conto che la Costituzione, secondo la giurisprudenza della Corte, assegna alla pena una finalità di rieducazione, che ne comporta una certa flessibilità, che non può condurre a superare l’afflittività, ma neanche può essere pregiudicata dalla finalità di prevenzione generale e di difesa sociale. Vi sono spazi per approfondire provvedimenti in grado di realizzare un ragionevole equilibrio tra dette finalità, anche mediante la previsione di percorsi capaci di rieducare, riannodando i legami spezzati dal reato.
Tra pochi giorni lascerà l’ufficio di procuratore generale: che bilancio fa di questa esperienza? E com’è stata l’esperienza al Csm?
Il mio percorso professionale si è dipanato per 45 anni (mancheranno soltanto due mesi), in larga misura con funzioni giudicanti, dal 2013 con funzioni di pm di legittimità. L’esperienza di Procuratore generale è stata complessa, perché lo è la funzione, per delicatezza e molteplicità dei compiti che assomma, ma è stata bellissima. Ringrazio i colleghi che me l’hanno resa tale, in quanto di valore eccezionale. Grazie al loro impegno ed alla loro dedizione è stato possibile fare fronte alle difficoltà dovute alle carenze di organico, a problemi di risorse, alle novità normative susseguitesi a ritmo vorticoso. E ciò hanno fatto nella consapevolezza che compito della Procura generale è cooperare con la Corte nella nomofilachia, quale organo di giustizia che a questa deve “chiedere il diritto”, mediante un’accorta fusione di prudenza e di coraggio, per contribuire alla stabilità degli orientamenti, ma anche per favorire le giuste innovazioni, ciò facendo insieme all’Avvocatura. I rapporti con il ministro della Giustizia, nell’ambito della giustizia disciplinare, affidata alle iniziative delle due Istituzioni, si sono svolti nel quadro di una leale collaborazione, con talune diversità di vedute proprie di una fisiologica dialettica. Positiva è stata anche l’esperienza al Csm, soprattutto dal punto di vista umano. La diversità di vedute, ovvia e scontata, mai ha inciso sulla serenità dei rapporti e sul reciproco rispetto, tra tutti. Del Consiglio superiore si dà un’immagine che non mi sembra del tutto corrispondente alla realtà. Mi affido ai numeri, con riguardo alle pratiche che più di tutte alimentano tale convincimento, il conferimento degli uffici direttivi. Ebbene questo Consiglio ha conferito 252 incarichi direttivi all’unanimità e 78 a maggioranza. Sono numeri che evidenziano una condivisione di scelte significativa oltre ogni dubbio, con una dialettica che resta nell’ambito della fisiologia. Analogamente, quanto alle altre pratiche che più destano l’attenzione, i pareri sui disegni di legge, il Csm ha sempre e soltanto inteso offrire la propria opinione e collaborazione, nell’adempimento di un dovere imposto dall’ordinamento. E ciò ha fatto all’esito di una normale, doverosa dialettica, con ovvie divergenze di opinioni, ma nel fermo convincimento di essere chiamato a rendere un parere tecnico, nella consapevolezza che il potere di scelta spetta al Parlamento, sempre senza alcuna ambizione di porsi quale “terza Camera”, come di frequente si dice, con considerazione che mi sembra priva di consistenza.