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Il giurista Gian Luigi Gatta
Le intercettazioni restano al centro del dibattito politico. Ne parliamo il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università di Milano, che è stato consigliere dell’ex guardasigilli Marta Cartabia.
Sulle intercettazioni, lei è stato audito in commissione Giustizia al Senato e tra le altre cose ha detto: “Si deve valutare se e quanto è necessario modificare il quadro normativo per evitare gli abusi e quanto questi dipendano dalla violazione di regole già previste”. Come farlo praticamente?
Vedo un rischio, nel dibattito sui temi della giustizia penale: quello della tela di Penelope. Parlamento e governo lavorano a complesse riforme, spesso frutto di commissioni di studio, audizioni di esperti, mediazioni tra gli stakeholders e poi, cambiata la legislatura, sembra ogni volta che si ricominci da capo. Le faccio tre esempi: la prescrizione del reato, riformata nel 2017, nel 2019 e nel 2021, tre volte in cinque anni, un record sul piano internazionale, direi; l’abuso d’ufficio, riformato nel 2020, e, appunto, le intercettazioni, riformate nel 2017 con effetti però decorrenti solo dal 2020. Beninteso: è in una certa misura fisiologico che possano essere riviste scelte politiche, da parte di nuove maggioranze. Ma il rischio è appunto quello di fare e disfare, perché a una maggioranza ne seguirà sempre un’altra. La soluzione, allora, è di confrontarsi in modo puntuale con le precedenti riforme, valutandone attentamente gli effetti, anche sulla base di dati statistici, e incentrando il dibattito su proposte di intervento circoscritte e ben definite.
Il metodo dovrebbe secondo me essere questo: dare al dibattito contorni più definiti, avviandolo sulla base di proposte sulle quali confrontarsi: solo così si può discutere in modo costruttivo, migliorando il sistema. Bisogna cercare di spostare il baricentro della discussione dal terreno dello scontro politico a quello del confronto tecnico. Penso che possa essere molto utile, a questo fine, l’indagine conoscitiva avviata dalla commissione Giustizia del Senato presieduta dalla senatrice Bongiorno.
Intervenendo in audizione mi sono permesso di suggerire questo approccio di metodo: valutare se le criticità, vere o presunte, dipendono dalle norme vigenti o, piuttosto, da comportamenti di magistrati, polizia giudiziaria, avvocati e giornalisti. Bisogna mettere a fuoco, problema per problema, se dipenda dalle regole o dalla loro violazione, cioè da comportamenti che vanno controllati e sanzionati nelle sedi competenti, anche disciplinari.
La magistratura è pronta a indagare su se stessa?
L’indipendenza della nostra magistratura è un pilastro, come ha ricordato il presidente Mattarella in occasione della cerimonia di commiato ai consiglieri del Csm. Nessuno può dubitare, e la storia lo testimonia, del fatto che i magistrati siano pronti a far luce su illeciti commessi nell’esercizio dell’attività giudiziaria dai loro colleghi. Anche quando si tratta della rivelazione di segreti d’ufficio.
Penso che, in materia di intercettazioni, sia molto importante valorizzare l’organizzazione del lavoro, delle procure e dei gip, il ruolo dell’ispettorato presso il ministero della Giustizia, non solo per i profili di spesa, e, non ultima, la formazione, anche della polizia giudiziaria che lavora con i pm e che ascolta le intercettazioni per prima. Quale componente del Comitato direttivo, posso testimoniare come, anche in tema di intercettazioni, la cultura del rispetto dei diritti fondamentali e delle garanzie, dell’etica e della deontologia, sia da sempre uno dei punti fissi nei programmi della Scuola superiore della magistratura, compresi quelli per i giovani magistrati in tirocinio, che lunedì hanno iniziato a frequentare la sede di Scandicci.
Al momento l’ordinanza cautelare è pubblicabile interamente: lei condivide quanto dettoci dal presidente Anm Santalucia, cioè che “la pubblicabilità delle ordinanze cautelari” risponde a “un preciso bisogno di informazione dell’opinione pubblica”?
L’informazione, in presenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti, va senz’altro tutelata, purché siano soddisfatti, ovviamente, i requisiti per un legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria, che la legge individua all’esito di un complesso bilanciamento tra interessi contrapposti, facenti capo a chi è indagato e, non dimentichiamolo, presunto non colpevole. A me pare che l’attenzione vada spostata a monte: alla puntuale verifica della sussistenza dei gravi indizi che legittimano le intercettazioni, alla loro effettiva necessità ai fini delle indagini, alla effettività dello stralcio di quelle irrilevanti e non pertinenti. Il ruolo di tutti gli attori coinvolti, e il controllo degli avvocati, che dovrebbe essere agevolato e valorizzato in ogni modo, è fondamentale per la tutela dei diritti.
Lei in commissione ha anche detto: “Più che limitare l’ambito delle intercettazioni, si potrebbe valutare se non sia il caso di stemperare qualche eccesso sanzionatorio, e incidere sulle pene”. Ci spiega meglio?
Non penso che sia necessario ridurre in termini generali il novero dei reati per i quali consentire le intercettazioni: si tratta, generalmente, di reati di una certa gravità, puniti con l’ergastolo o con la reclusione superiore nel massimo a 5 anni. Quello che è accaduto in passato, piuttosto, è che, con eccessi sanzionatori, si sono alzate sopra il limite dei 5 anni le pene per questo o quel reato, anche per consentire le intercettazioni.
Riflettere su questo fenomeno e andare in controtendenza sarebbe un’inedita e interessante soluzione politico-criminale: si potrebbero riparare eccessi sanzionatori riducendo in modo ragionevole, al contempo, l’area delle intercettazioni. In altri termini: anziché proporre di consentirle solo per gravi reati come quelli di mafia e terrorismo, si potrebbero individuare reati non particolarmente gravi che non meritano massimi edittali elevati, tali da consentire un mezzo di ricerca della prova così insidioso.
Secondo lei, anche considerate le posizioni di Nordio e i toni appassionati dei suoi interventi, c’è il rischio di un nuovo scontro politica- magistratura?
Come le dicevo, per far fare un salto qualitativo al dibattito sulla giustizia è auspicabile spostarne il baricentro sul terreno del confronto, non dello scontro. I temi della giustizia sono tanto rilevanti quanto complessi, sul piano tecnico, e male si prestano a semplificazioni eccessive. Per questo penso che sia opportuno evitare ogni forma di scontro e confrontarsi su proposte di interventi normativi, andando al merito delle questioni. Il confronto può essere molto acceso: ma deve esserlo sui principi di fondo e/ o sulle soluzioni tecnico- normative.
Da giurista condivide quello che spesso ripete Nordio circa il paradosso di un codice Rocco che non è stato alterato e quello di Vassalli svuotato da interventi del legislatore e della Consulta?
Il codice Rocco è oggi ben diverso dalla versione originale: nasce con una forte impronta liberale, frutto del lavoro di alcuni grandi giuristi formatisi prima del regime, che gli ha consentito di resistere fino ad oggi, pur con elementi che indubbiamente risentono del contesto storico politico in cui fu adottato. L’avvento della Costituzione, gli interventi della Corte costituzionale e del legislatore, nel corso di quasi un secolo, ne hanno molto modificato il volto.
Il codice di procedura penale è stato invece cambiato in quando si è deciso di passare al modello accusatorio, alla fine degli anni Ottanta. Anche quel codice è stato interessato da tanti interventi della Corte costituzionale e da tante modifiche normative, da ultimo con la riforma del processo penale in vista degli obiettivi del Pnrr. Nessuna legge è perfetta e, sotto la spinta della prassi e dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, della tecnologia e della realtà, anche criminologica, mutamenti e correzioni sono e saranno sempre inevitabili.