PHOTO
Paolo Ferrua, Professore emerito di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Torino, è uno dei massimi esponenti dell'accademia giuridica italiana. In questa intervista al Dubbio esprime la sua ferma contrarietà al nuovo istituto dell'improcedibilità contenuto nella "mediazione Cartabia": «Vicenda avvilente, che riduce il processo a teatro delle ragioni di Stato». E in conclusione arriva a dire che più di una riforma ' bricolage' avremmo bisogno di un nuovo codice di procedura penale.
Qual è il suo parere sul nuovo istituto dell'improcedibilità?
Sono radicalmente contrario. A mio avviso, la prescrizione è - e deve restare - una causa estintiva del reato, appartenente al diritto sostanziale e operante su tutto l’arco temporale che va dalla commissione del reato alla sentenza irrevocabile. Sino a quando non si modifichi l’art. 112 Cost., relativo all’obbligatorietà dell’azione penale, non è ammissibile che, non essendo estinto il reato, il processo evapori, svanisca nel nulla con una sentenza di improcedibilità. Che il decorso del tempo possa estinguere il reato, segnando la fine del processo, è plausibile; che estingua direttamente il processo, restando in vita l’ipotesi di reato che sta a base dell’azione penale, è abnorme.
Paolo Ferrua, Professore emerito di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Torino, è uno dei massimi esponenti dell'accademia giuridica italiana. In questa intervista al Dubbio esprime la sua ferma contrarietà al nuovo istituto dell'improcedibilità contenuto nella ' mediazione Cartabia': «Vicenda avvilente, che riduce il processo a teatro delle ragioni di Stato». E in conclusione arriva a dire che più di una riforma ' bricolage' avremmo bisogno di un nuovo codice di procedura penale.
Qual è il suo parere sul nuovo istituto dell'improcedibilità?
Sono radicalmente contrario. A mio avviso, la prescrizione è - e deve restare - una causa estintiva del reato, appartenente al diritto sostanziale e operante su tutto l’arco temporale che va dalla commissione del reato alla sentenza irrevocabile. Sino a quando non si modifichi l’art. 112 Cost., relativo all’obbligatorietà dell’azione penale, non è ammissibile che, non essendo estinto il reato, il processo evapori, svanisca nel nulla con una sentenza di improcedibilità. Che il decorso del tempo possa estinguere il reato, segnando la fine del processo, è plausibile; che estingua direttamente il processo, restando in vita l’ipotesi di reato che sta a base dell’azione penale, è abnorme.
Quali sono le criticità in merito alle conseguenze di questo nuovo istituto sulle parti processuali?
Primo. Presto o tardi è probabile che la Corte di giustizia, come già disposto dalla sentenza ‘ Taricco’, autorizzi i giudici nazionali a ‘ disapplicare’ la ‘ improcedibilità’ quando nei reati siano coinvolti interessi europei ( e di frequente lo sono); con l’inevitabile conseguenza di gravi incertezze sul piano interpretativo tra i casi in cui ‘ si applica’ e quelli in cui ‘ non si applica’ la nuova improcedibilità. A differenza di quanto avvenuto nella c. d. saga Taricco, stavolta non sarà possibile invocare, a favore dell’imputato, il controlimite costituzionale che subordina la punibilità alla presenza di una legge «entrata in vigore prima del fatto commesso» ( art. 25 comma 2 Cost.): l’improcedibilità, proprio per la sua natura processuale, è immediatamente applicabile o disapplicabile, quale che fosse il regime vigente al momento del fatto. Secondo. In presenza di una causa estintiva del reato, il giudice pronuncia sentenza assolutoria se risulta evidente la presenza di una causa di non punibilità, ai sensi dell’art. 129 comma 2 c. p. p. La sentenza di improcedibilità, invece, preclude a priori qualsiasi accertamento nel merito, prevalendo su ogni altra formula. Così, se il pubblico ministero impugna l’assoluzione, quando siano superati i termini di durata massima della fase processuale, l'assoluzione si converte nella improcedibilità. Stupefacente reformatio in peius per decorso del tempo! Terzo. In caso di improcedibilità – salva l’introduzione di specifici correttivi - la parte civile vede delusa ogni pretesa risarcitoria, anche se già accolta in primo grado, non avendo altra via che rivolgersi al giudice civile, come giustamente osservato da Giorgio Spangher.
Lei ritiene che fosse preferibile l'ipotesi A della Commissione Lattanzi?
Rispondo sì, senza esitare.
Nonostante per molti fosse preferibile l'ipotesi A, come mai poi, secondo Lei, il Ministero ha optato per questo sistema ibrido di prescrizione sostanziale operante lungo l’arco del giudizio di primo grado e improcedibilità per superamento dei termini nei gradi successivi?
Sospetto che il motivo fosse quello di propiziare il consenso dei 5- Stelle, ostili al ripristino della prescrizione. Si è pensato che il modo migliore per ottenere quel consenso, fosse parlare di ‘ improcedibilità’ anziché di ‘ prescrizione’, nonostante l’improcedibilità altro non sia che la prescrizione processuale. La prova è riuscita e i ministri pentastellati, sedotti dalla nuova denominazione, hanno votato gli emendamenti, cadendo nell’illusione referenziale. Vicenda avvilente, che riduce il processo a teatro delle ragioni di Stato.
È corretto dire che il modello processuale della Commissione ministeriale disincentiva il passaggio alla fase del dibattimento, sacrificando la formazione della prova in contraddittorio?
Ogni legge di una certa consistenza reca un ‘ messaggio’ e quello della presente legge è: «Il dibattimento e con esso il contraddittorio nella formazione della prova - va evitato, disincentivato sin dove possibile». Non approvo questo messaggio. Le garanzie del giusto processo, del contraddittorio nella formazione della prova non sono state inserite nella Costituzione perché fossero marginalizzate, ridotte ad un lussuoso oggetto da esibire in vetrina, con rari riscontri nella pratica quotidiana. L’asse del processo si sposta sempre più verso le indagini preliminari. Rischia di uscire umiliata la stessa professione dell’avvocato, convertito più in negoziatore che in antagonista dell’accusa nella ricostruzione dei fatti. Servirebbe una coraggiosa depenalizzazione. I reati vanno previsti solo dove risultino del tutto insufficienti, ai fini della riparazione dell’offesa, il risarcimento del danno o altre sanzioni civili o amministrative. Non è un buon metodo quello di proseguire in una dissennata politica di penalizzazione, salvo offrire all’imputato la possibilità di uscire dal processo con varie misure riparative. “Meno penale e più responsabilità civile, amministrativa e politica” è l’obiettivo a cui ci si dovrebbe indirizzare. Purtroppo, la pan- penalizzazione appaga istanze punitive molto diffuse nella nostra società.
Dopo la fase di mediazione, rispetto alla prima formulazione della Commissione Lattanzi, al pubblico ministero è stata restituita la possibilità di fare l’appello contro le sentenze di assoluzione. Ci voleva più coraggio su questo punto?
Era preferibile la soppressione dell’appello del pubblico ministero, disposta dalla Commissione Lattanzi. La possibilità di una condanna, pronunciata per la prima volta in appello, pregiudica fortemente l’imputato, al quale resta solo il ricorso per cassazione, inadeguato a soddisfare il diritto al ‘ riesame’ della colpevolezza tutelato dal Patto internazionale sui diritti civili e politici ( art. 14).
Aspettiamo da decenni una riforma del processo penale. Lei ritiene che il lavoro della Commissione Lattanzi e la successiva "mediazione Cartabia" sia all'altezza delle aspettative?
La Commissione era chiamata ad un compito davvero ingrato. Le si chiedeva di intervenire su un codice già ridotto a brandelli da mille ritocchi e sentenze costituzionali, e per di più, non attraverso un’autonoma iniziativa, ma con un metodo che ricorda il bricolage, ossia tramite emendamenti al testo del progetto già elaborato dal ministro Bonafede. Sfida pressoché impossibile. Quello che servirebbe, se vi fosse un lampo di buon senso, sarebbe un nuovo codice di procedura penale, condizione essenziale per allestire un processo degno di questo nome. Quanto alle aspettative, speravo in una restrizione dell’uso, ancora troppo disinvolto, della custodia cautelare; speranza, ahimè, delusa.