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Ho sempre cercato di immaginare la condizione dei miei assistiti agli arresti domiciliari.
Mi sono sempre fatto l’idea che è una condizione variabile, a seconda del tipo di famiglia , di condizione sociale e di alloggio. Trascorrere mesi in una villa in collina, confortato dagli affetti di una famiglia numerosa e felice, rassicurato da un patrimonio consistente può anche essere una salutare esperienza interiore.
Vivere barricato all’ultimo piano di una casa popolare, insieme a conviventi insofferenti e con l’angoscia di non avere un reddito minimo è un vero e proprio incubo , causa spesso di evasioni non del tutto innocenti, ma spesso giustificate da una insofferenza che può essere foriera di violenza.
Ora, in questi tempi di quarantena collettiva, sono costretto a fare i conti con me stesso : a valutare con attenzione se la mia famiglia sia felice e quanto assomigli alle altre , parafando Tolstoj , ma anche, parafrasando Veltroni, quanto sia tranquilla la mia condizione economica e quali siano i miei limiti di resistenza. Con qualche collega anni orsono c’eravamo ingegnati di individuare una legge scientifica per calcolare il tempo di resistenza psichica di un incensurato in carcere : in via esperienziale siamo arrivati a calcolarlo in tre settimane.
E’ il tempo di una vacanza. Fino a quel punto scatta un meccanismo di tutela mentale che fa accettare l’emergenza, travestendola da novità, che bella o brutta che sia, presenta sempre un lato affascinante , il fascino dell’inconsueto.
Si accetta quindi di mangiare e dormire in modo diverso, di vivere in modo totalmente differente dal normale perché anche chiedere permesso per andare in bagno può essere un modo per tornare con la mente ai tempi del collegio o della colonia e associare al presente il ricordo delle cose belle del passato, dato che la memoria è provvidenzialmente selettiva.
Poi, a meno che non arrivi un provvedimento del Tribunale del Riesame o della Magistratura di Sorveglianza ( a seconda del fatto di essere “definitivi” o no), il collasso psicofisico è questione di ore. Nel caso nostro, purtroppo non esiste un tribunale al quale ricorrere. Le toghe nere o rosse sono fuori gioco, barricate in palazzi sempre più deserti. E’ il tempo dei camici bianchi, la rivincita dei medici contro gli avvocati e i giudici.
Ultimamente nel personale ospedaliero avvertivo insofferenza verso l’aumentare del contenzioso da responsabilità sanitaria. I medici in tribunale si sentono a disagio, prigionieri di un linguaggio e di una razionalità che non è la loro e che spesso non hanno neppure voglia di comprendere. Ora i medici i tribunali li hanno chiusi . Siamo noi, ormai svestiti della toga ad aspettare da loro una sentenza di assoluzione o anche sola una ordinanza cautelare chi allevi la nostra coatta quotidianità.
Ma davanti ai medici, come avvertiva un bel libro di qualche anno fa, in reparto non ci sono uomini in toga o in cravatta. Ci sono solo pigiami ; gli abiti , spesso dimessi, della nostra esistenza più segreta e vergognosa ; non l’intimo superlativo connesso al sesso, ma la dimensione più triste di una digestione pigra e di una sonnolenza inquieta che solo il calore della casa protegge.
Siamo nelle mani degli uomini in bianco, noi che ci vestiamo di nero.