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Il costituzionalista Giovanni Guzzetta
L’affaire delle presunte dimissioni della Ministra del Turismo Daniela Santanchè, rinviata a giudizio per false comunicazioni sociali, si intreccia su due strade: quella politica e quella giuridica. La prima riguarda l’opportunità della rappresentante del Governo Meloni di dimettersi o meno in mancanza di una condanna definitiva, l’altra concerne l’impossibilità della premier di revocare la sua nomina. Come ci spiega il giurista Giovanni Guzzetta, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Roma Tor Vergata, «prescindendo dal merito del caso di specie su cui non ho titolo per pronunciarmi, si può dire che in generale non è previsto espressamente dalla Costituzione che il Presidente del Consiglio possa revocare la nomina di un Ministro.
L’art. 92 della Carta prevede solo che «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Ci spiega il professore che «per l’interpretazione maggioritaria della dottrina questo potere di nomina non comprende anche un potere di revoca su proposta del presidente del Consiglio». L’argomento abitualmente utilizzato è quello per cui «nella logica del sistema parlamentare italiano, secondo l’art. 95 della Costituzione, il Presidente del Consiglio dirige la politica nazionale e assume un ruolo di coordinamento dell’indirizzo politico ed amministrativo che, essendo espressione di scelte collegiali, non pone il premier in una posizione di supremazia rispetto ai ministri.
Tra l’altro al contrario, ad esempio del Cancelliere tedesco, che gode di un’investitura propria e di come sarebbe nell’ipotesi di elezione diretta, il Presidente gode di una legittimazione politica unitaria insieme all’intero governo». All'opposto per la «tesi minoritaria, pur autorevolmente sostenuta, il potere di revoca è implicito in quello di nomina, connaturale alla posizione di un presidente del Consiglio, come garanzia dell’unità del Governo in caso di insanabile contrasto tra il premier il singolo ministro». Quindi non sarebbe irricevibile l’ipotesi di una Meloni pronta a revocare la nomina della Santanché?, chiediamo all’esperto che ci risponde: «nel diritto costituzionale le consuetudini o le convenzioni interpretative hanno un loro peso». L’aspetto interessante per il giurista è invece la circostanza per cui «per far valere la responsabilità politica del singolo Ministro esiste la mozione di sfiducia individuale».
Bisogna quindi tornare indietro con la mente al 1995: capo del Governo è Lamberto Dini, Ministro della Giustizia il magistrato Filippo Mancuso. Siamo nel pieno dell'inchiesta di Mani Pulite e il Guardasigilli inviò un'ispezione al Tribunale di Milano perché ritenne poco ortodosso l'uso da parte del pool della carcerazione preventiva, a suo dire utilizzata per costringere alla confessione le persone sotto indagine. Ci fu una ribellione generale da parte dell'opinione pubblica che si strinse attorno al gruppo di magistrati requirenti, che venne difeso anche dallo stesso presidente del Consiglio e dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Con una procedura fino ad allora inedita nella storia della Repubblica, la sua stessa maggioranza avanzò una mozione di sfiducia che potremmo definire «ad personam» nei confronti del solo ministro della giustizia. Il 4 luglio 1995 infatti al Senato della Repubblica fu proprio la maggioranza parlamentare di sostegno al governo Dini a presentare una mozione di sfiducia al Ministro di grazia e giustizia, per aver egli assunto «iniziative che hanno determinato condizioni di conflittualità, e ciò al di fuori della collegialità del governo» e per aver determinato, con le posizioni pubblicamente assunte, «un insanabile contrasto con il Presidente del Consiglio, concretando altresì una violazione di quanto previsto dall’articolo 5, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, che concerne la necessità di concordare con il Presidente del Consiglio le pubbliche dichiarazioni impegnative per il Governo».
Si affermava quindi che la permanenza in carica del ministro appariva incompatibile con l’efficace svolgersi dell’azione di governo. Il 19 ottobre 1995 la sfiducia nei confronti di Mancuso fu approvata al Senato con 173 voti favorevoli. Guzzetta ci ricorda che «Mancuso sollevò un conflitto di attribuzione contro il Senato della Repubblica dinanzi alla Corte Costituzionale. Con la sentenza 7/ 1996 la Consulta dichiarò per la prima volta che è nel diritto di ciascuna Camera approvare una mozione di sfiducia anche nei confronti di un singolo ministro e che spetta al Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, sostituire il ministro nei cui confronti una delle Camere abbia approvato una mozione di sfiducia, quando questi non si sia dimesso».
Tra l’altro in quell’occasione «la Corte sembra aver lasciato aperto qualche spiraglio anche per l’ipotesi della revoca». L’ipotesi che l’incompatibilità tra l'indirizzo del Governo e l'azione del singolo ministro trovi soluzione nell'ambito del Consiglio dei ministri, attraverso iniziative del Presidente, sarebbe una via «in astratto coerente con i poteri e le responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri, quale garante dell'unità di indirizzo del Governo».
Malgrado tale inciso, però, la Consulta ha ritenuto che non spettasse a essa, in quell’occasione, «indagare sulle ragioni che non hanno consentito, nel caso di specie, una soluzione siffatta». Sulla sfiducia al singolo ministro, la Corte disse, invece, chiaramente che «il recupero dell'unitarietà di indirizzo può essere favorito proprio dal ricorso, quando una delle Camere lo ritenga opportuno, all'istituto della sfiducia individuale», legittimandone così l’utilizzo proprio da parte della maggioranza politica. Per Guzzetta siamo così di fronte a una situazione «paradossale secondo la quale il presidente del Consiglio non può, allo stato, revocare un suo ministro» «ma può essere approvata una mozione di sfiducia o presentata dalla minoranza e appoggiata da una parte della maggioranza o presentata dalla stessa sola maggioranza».
L’argomento, oltre di essere di attualità in riferimento alla vicenda Santanchè, in realtà era riemerso quando si era parlato, all’inizio della legislatura, della riforma del premierato che prevede, tra l’altro, che «il Presidente della Repubblica conferirà al presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il Governo e nominerà e revocherà, su proposta di quest’ultimo, i ministri».
Ovviamente nel caso di revoca tutti i partiti di maggioranza che sostengono l’Esecutivo dovrebbero essere d’accordo, altrimenti si rischia che il partito del ministro sotto accusa possa togliere la fiducia al Presidente del Consiglio. Comunque sulla proposta si è detto d’accordo anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi: «Nominare e revocare i ministri è il minimo sindacale di qualsiasi riforma che dia più poteri all’inquilino di Palazzo Chigi» disse in una intervista a La Stampa.