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SARA MINELLI
Di immunità parlamentare si fa un gran parlare, dopo la proposta del forzista Tommaso Calderone e la presa di posizione, a favore della sua reintroduzione, da parte del ministro della Difesa Guido Crosetto. Ma anche a sinistra il dibattito è aperto, com’era aperto quando il Pds, nel 1993, guidò la battaglia per la sua abolizione. Umberto Ranieri all’epoca era vicecapogruppo pidiessino al Senato, e a distanza di 32 anni ricorda come «il moralismo giustizialista si era diffuso ovunque, anche nelle nostre fila», e che quella riforma «fu sostenuta da tutti e nessun partito osò metterla in discussione».
Senatore Ranieri, cosa ricorda di quel periodo?
Ricordo che si giunse alla riforma dell’immunità in anni di drammatica tensione, cioè il biennio ’92-’93, in cui sia alla Camera che al Senato ci fu un succedersi di voti su autorizzazione a procedere. Io ero senatore e ricordo ad Saverio Citaristi, amministratore della DC, uomo mite e riservato che era stato coinvolto in decine di inchieste e quando giunse la richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti non volle nemmeno che si svolgesse la discussione in Aula. Si alzò, prese la parola e chiese all’Assemblea di concedere l’autorizzazione.
Come si comportò il Pds, allora guidato da Achille Occhetto?
Il moralismo giustizialista si era diffuso ovunque, anche nelle nostre fila. Ma sottolineo che la personalità del Pds che più ebbe dubbi su alcuni caratteri che assunse l’iniziativa della legislatura fu Gerardo Chiaromonte, che io ricordo sempre preoccupato del fatto che nella vicenda italiana di quegli anni si mescolassero aspetti troppo diversi tra loro, come la crisi politica che richiedeva un mutamento di classi dirigenti e un diverso modo di funzionare dell’economia italiana dopo il Trattato di Maastricht. E che quindi in una democrazia funzionante non sarebbe stato possibile affidare a un solo attore, tantomeno ai giudici, la chiave di queste crisi.
Cosa implicarono tali trasformazioni?
Si trattava di fenomeni diversi che invece nel crogiolo della crisi italiana si intrecciavano e le conseguenze di una tale confusione si manifestarono a lungo; di certo le tracce sono presenti ancora oggi. Ricordo un articolo di Galli Della Loggia che parlava di “ruolo smisurato e improprio” delle iniziative della magistratura. D’altronde, basti pensare a come furono condotte le inchieste di Tangentopoli, cioè con uno scarso rispetto delle garanzie degli indagati. Poi si sa, anche in altri paesi nel corso degli anni ’90 c’erano stati clamorosi interventi della magistratura e tuttavia non avevano condotto a un’alterazione così profonda del sistema politico come accadde in Italia. Ricordo soprattutto Chiaromonte, ma anche il senatore Pellegrini ebbe un ruolo delicato su quelle questioni. Era un uomo di rara intelligenza e padronanza della materia.
C’era anche chi non era favorevole alle modifiche all’immunità?
Diciamo che il clima era tale che era difficile farsi valere, anche manifestando dubbi sulla piega che avevano preso gli avvenimenti. In Italia i fenomeni di corruzione della vita pubblica erano diffusi, questo è indiscutibile, e c’erano responsabilità della politica e di chi aveva guidati il paese. La stessa immunità era stata usata spesso per coprire, proteggere e lasciar correre, ma poi c’è tutto il capitolo di come furono condotte le indagini. Di certo la riforma dell’immunità fu sostenuta da tutti e nessun partito osò metterla in discussione. Del resto le autorizzazioni a procedere anche verso persone per bene venivano “accettate” senza colpo ferire. A prevalere fu un impulso distruttivo, basti pensare a Craxi. Non c’era discussione, si procedeva con l’autorizzazione a procedere senza discussione e questo fu certamente un segno dell’indebolimento della capacità critica della politica.
Fu quello l’inizio della guerra dei trent’anni tra politica e magistratura?
Certamente le tensioni tra politica e magistratura hanno origine in quella fase. È indispensabile che si discuta della misure tese alla riforma della giustizia con il coinvolgimento di tutti. Ecco perché il modo in cui si sta discutendo oggi di questa riforma mi lascia dei dubbi. Non c’è nessun tentativo di cercare una strada comune e questo non aiuta il paese.Ho l’impressione che la stessa magistratura stia affrontando questa fase convinta che l’unica strada debba essere la contrapposizione. Probabilmente sarebbe invece importante una certa disponibilità a entrare di più nel merito e valutare assieme le cose da cambiare.