PHOTO
Basta un “incidente diplomatico” per far saltare il tavolo. Per comprendere quanto sia fragile il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese è utile dare un’occhiata ai due casi di “scuola” che stanno agitando le notti del ministro per lo Sviluppo economico: l’Ilva di Taranto e la Whirlpool di Napoli. In tutto quasi 12 mila posti di lavoro a rischio. Per ragioni completamente differenti, eppure molto simili nelle dinamiche che mettono in luce l’impotenza della politica e, in alcuni, casi la capacità delle imprese di non rispettare gli accordi già presi. Sull’ex Ilva, in mano al colosso mondiale dell’acciaio Arcelor Mittal, pende soprattutto la mannaia dell’indecisione da parte dei partiti di governo. A innervosire la nuova proprietà, infatti, è stata la decisione dei partiti di maggioranza di stralciare dal decreto fiscale la parte relativa allo scudo penale per Arcelor Mittal. A mandare su tutte le furie la multinazionale franco-indiana è l’atteggiamento ondivago dell’esecutivo. Il Movimento 5 Stelle aveva già abolito l’immunità per i vertici dell’acciaieria nel “decreto crescita” di aprile, l’aveva poi reintrodotta nel “decreto salva Imprese”, per poi cancellarla di nuovo adesso. «C’è un nuovo amministratore delegato di ArcelorMittal, un gruppo importante di un settore importante del nostro Paese, certamente li vedrò», ha annunciato il neo ministro per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dopo l’incidente. «Ci sarà interlocuzione tra le forze di maggioranza che decideranno che cosa fare sugli emendamenti che non sono stati ancora votati. Si tratterebbe di un pretesto perché non è elemento contrattuale l’esistenza di una tutela legale su alcune questioni penali. Interloquiremo con il nuovo amministratore delegato e chiariremo ogni aspetto legato a quello che vuole fare Mittal a Taranto», ha aggiunto il ministro grillino, mandando su tutte le furie le organizzazioni sindacali, convinte che così facendo il governo offra alla multinazionale dell’acciaio il pretesto per abbandonare il rilancio dello stabilimento tarantino. E mentre le parti si contrappongono davanti all’ennesimo tavolo da aprire, 11 mila famiglie tornano nell’incubo dell’incertezza. Ma se su Taranto pende la spada di Damocle dell’indecisione governativa, sui 430 lavoratori di Napoli gravano le continue giravolte della Whirlpool. L’azienda americana di elettrodomestici ha infatti deciso in modo unilaterale di abbandonare lo stabilimento campano, a partire dal primo novembre, nonostante una trattativa conclusa un anno fa. Nell’ottobre del 2018, infatti, proprietà e sindacati chiudono un accordo importante, che prevede 250 milioni di investimenti da parte dell’azienda. Passano pochi mesi, e a maggio Whirlpool annuncia nuovamente l’insostenibilità della produzione napoletana a causa della crisi delle lavatrici top di gamma. Ne scaturisce un nuovo tavolo e Di Maio chiede la revoca dei finanziamenti concessi negli anni, qualora la multinazionale non mantenga gli impegni sottoscritti. La mossa funziona e dalla multinazionale arrivano nuove rassicurazioni: nessuna delocalizzazione e nessuna vendita. La buona volontà di Whirlpool induce l’allora ministro a d andare incontro alla società americana. Di Maio annuncia la presentazione di un decreto che permetterebbe a Whirlpool di accedere a una decontribuzione in 15 mesi, con sgravi fiscali sugli oneri relativi ai contratti di solidarietà. Sul piatto della bilancia ci sono: 10 milioni di euro per il 2019 e 6,9 milioni per il 2020. Il salvataggio dello stabilimento sembra cosa fatta. Ma ad agosto la multinazionale cambia ancora idea. Il nuovo progetto prevede delocalizzazione e riconversione della fabbrica napoletana, attraverso la cessione di un ramo d’azienda alla svizzera Prs. Il nuovo ministro Patuanelli va su tutte le furie ma non può impedire l’annuncio di Luigi La Morgia, ad di Whirlpool Italia, che il 15 ottobre dichiara dopo un incontro a cui è presente anche Giuseppe Conte: l’azienda «vista l’impossibilità di una discussione sul merito del progetto di riconversione e i mesi di incontri che non hanno portato ad alcun progresso nella negoziazione» annuncia che procederà alla cessazione dell’attività produttiva il 1 novembre. Per 430 famiglie è l’ennesima doccia fredda. Per il governo una dimostrazione d’impotenza.