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A milioni di persone il Coronavirus ha rubato il futuro. Ma a quanti ha sottratto il presente? Per non restare nel vago, diciamo che ai diciottenni, ma anche ai più giovani - dei quali non parla quasi nessuno ( qualche accenno qua e là in contesti non specifici) - il morbo ha portato via la vita pur facendoli restare fortunatamente tra di noi. Tutti coloro che hanno vissuto quell’età sanno che se non è stata una sorta di stagione dorata, poco ci è mancato. Quelli che la vivono oggi non si danno ragione dell’esclusione dal mondo - da quel “loro” promettente mondo - per via di un accidente del destino che impotenti subiscono. E ragionevolmente si preparano al peggio, vale a dire ad accettare un domani privi di progetti, di idee, di speranze, di entusiasmi.
Come potrebbero coltivarli, del resto? Non sapendo neppure se da qui a quindici giorni si tornerà al passato oppure se qualche timido spiraglio di ripresa autorizzerà l’ottimismo, a cosa possono ambire nell’attesa di qualcosa che non conoscono? La mia nipotina, l’altro giorno, mi ha confessato che farebbe qualsiasi cosa pur di tornare a scuola. Non soltanto per imparare, presumo, ma più verosimilmente per esercitare il suo naturale e sacrosanto diritto di sentirsi parte della sua comunità, di interagire con i suoi coetanei, di ridere, scherzare, progettare, piangere e confidarsi con loro. Ha meno di quattordici anni e suppongo abbia capito cosa l’ attende da qui ai prossimi: il mondo che incominciava ad imparare a frequentare non sarà più lo stesso.
E forse non potrà avere quel che è giusto desiderare quando si sta nel fiore dell’adolescenza, quando il cuore comincia a battere più forte per qualcuno, quando le bambole sono state messe da parte e all’orizzonte dovrebbe esserci il motorino e poi magari la patente di guida e quindi il viaggio all’estero senza mamma e papà, ma con i compagni di scuola, di giochi e di sogni. Il Covid ha fatto spuntare lacrime negate alla generazione che stava per tuffarsi nell’ignoto, nell’imprevisto, nella passione. E lo svago, che non è mai stato un peccato, se lo è divorato l’invisibile mostro lasciando che i ragazzi invecchiassero d’un colpo nella innaturale e pur necessaria reclusione degli ultimi due mesi, cui seguiranno altre settimane durante le quali non si capisce che cosa potranno fare rispetto a quel che hanno potuto fare fino ad oggi: bivaccare su un divano o su un tappeto, chattare con gli amici senza dirsi nulla, stendersi sul letto ascoltando il solito motivo che li riportava allo scorso inverno accompagnando i loro teneri sogni d’amore o di conquista.
No, non oserei parafrasare la “gioventù bruciata” del mio tempo trascorso in un’epoca lontana, raccontando dei “ragazzi del Covid- 19” ( se non fosse macabro potrebbe essere la denominazione di uno dei quei complessini musicali che mettevamo su negli anni Sessanta), ma è un fatto incontestabile che i tormentati adolescenti ed i giovanotti di primo pelo hanno dovuto arrestare la loro corsa dietro le emozioni più naturali e a lungo immaginate si sentano terribilmente privati di tutto ciò che hanno sentito raccontare da quelli più grandi, quasi loro coetanei, la “generazione Erasmus”, ad esempio. Si andava in giro per l’Europa a diciott’anni o poco più quando i pipistrelli dimoravano nelle lugubri grotte accuratamente evitate da chiunque; ci si strapazzava l’anima nel tentare - senza mai riuscirci, beninteso - di acchiappare il cuore della felicità; si ballava dentro e fuori mitiche rotonde sul mare d’estate e nei piccoli club d’inverno; si aggrediva l’amore con tutto il coraggio e la sbadataggine dell’età, lo si cullava e lo si malediceva di giorno e di notte, lo si piantonava davanti alle scuole e a cavalcioni sui muretti, lo si accompagnava con canzonette che ancora oggi, imboccando gli ultimi tornanti della vita, qualcuno di noi si ritrova, senza volerlo, a fischiettare.
Abbiamo pianto i morti negli ultimi sessanta giorni, senza conoscerli, senza sapere dove andavano a riposare privi di conforti familiari e religiosi; abbiamo sperato per tanti nostri cari; qualche sorriso è affiorato sulle labbra unito ad inevitabili lacrime; abbiamo vissuto, e voi con noi, quindicenni, sedicenni, diciassettenni, diciottenni una specie di infernale sabba incomprensibile.
E vi abbiamo guardati, accarezzando a distanza il vostro dolore, senza potervi dire niente. E che cosa avremmo potuto dirvi, del resto? Che è andato in fumo il tempo che vi era stato destinato, come la gioia che si è spenta brutalmente davanti ai cancelli delle scuole o nei parchi davanti ai baretti dove ora il silenzio è talmente profondo come neppure nelle chiese peraltro rinserrate dalla necessità, si dice, che forse talvolta fa rima con imbecillità. Vi restano gli smartphone, gli iPad, la musica che vi fa piangere e vi irrita. E la festa dei diciott’anni aspetterà per sempre, come quella foto che avrebbe dovuto immortalarla per poterla conservare fino alla fine.
Il vuoto della “generazione Covid” non lo riempiono le parole di un articolo, né di una dissertazione sociologica.
Ed è naturale che sia così. Mia nonna, scampata nel 1918 alla spagnola - terribile epidemia, non so se più o meno aggressiva di quella attuale - mi raccontava che i suoi ventidue anni li ricordava come un miracolo d’amore. Nonostante tutto non aveva perduto la speranza di vivere pienamente la propria giovinezza. Non rinunciò al suo giovane uomo e due anni dopo, superata la malattia, lo sposò. Aveva ventiquattro anni. Si dice che sacrifici e sofferenze rafforzano coloro che li accettano senza abbattersi. Ci si può augurare dell’altro per chi ha sorvolato l’età dell’oro guardando in faccia l’orrore e scoprendo forse la pietà?