Nel conflitto con Hamas il sostegno occidentale in favore di Israele non è destinato ad essere eterno. Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni Internazionali nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, è molto chiaro su questo punto. «L’appoggio - dice al Dubbio - non può essere una cambiale in bianco. Se Israele dovesse mostrare ancora una non sufficiente attenzione per le vittime collaterali, l’appoggio diventerebbe molto problematico».

Professor Parsi, la guerra in Medio Oriente inizia a mostrare il suo volto più crudo e feroce. Cosa potrà fermare Israele?

Occorre un’opera di convincimento da parte dei Paesi amici ed alleati. Una soluzione solo militare alla questione di Hamas non è possibile, perché rischia di aggiungere brutalità a brutalità, odio a odio, con il rischio che diventi impossibile qualunque soluzione politica duratura e di compromesso tra due popoli che devono vivere uno accanto all’altro.

Fino a quando la comunità internazionale continuerà a sostenere esplicitamente o tacitamente la reazione di Israele nella Striscia di Gaza?

Più che di comunità internazionale dobbiamo parlare degli occidentali. Questi ultimi guardano ad Israele con particolare attenzione sia per l’eredità dell’Olocausto sia perché Israele resta, comunque, una democrazia simile alle nostre anche se presenta moltissimi problemi. Badiamo bene, però, l’appoggio non può essere una cambiale in bianco. Se Israele dovesse mostrare ancora una non sufficiente attenzione per le vittime collaterali, l’appoggio diventerebbe molto problematico.

Netanyahu ha parlato di una guerra lunga. Dopo la guerra, cosa rischia l’attuale primo ministro?

Intanto, Benjamin Netanyahu dovrebbe dimettersi. È di ostacolo a qualunque ipotesi di dialogo con chiunque. Non è un interlocutore credibile. Il sospetto che la sua guida nella guerra la utilizzi per cercare di entrare in gioco politicamente è molto forte. Per il bene di Israele, per il bene della Palestina, per il bene della pace sarebbe opportuno che Netanyahu si facesse da parte, considerato il fallimento della sua politica.

Il procuratore della Corte penale internazionale ha assicurato un impegno diretto dell’Aja per perseguire i crimini che si stanno consumando. La giustizia internazionale riuscirà a farsi strada?

Dobbiamo credere all’intervento della giustizia internazionale. La Corte penale internazionale ha prodotto risultati concreti in passato. Abbiamo plaudito all’incriminazione di Putin per crimini di guerra, legati alla deportazione dei bambini ucraini. Sappiamo che la Corte penale internazionale ha un dossier aperto e continua a raccogliere prove dei crimini russi in Ucraina. L’attività della Corte è meritoria, perché segna piccoli e costanti passi di incivilimento persino nelle attività belliche. Guai a pensare che la Cpi sia inefficace nello svolgimento dei compiti attributi.

Se Hamas dovesse essere sradicata, sarà mai ipotizzabile, anche alla luce degli eventi di questi giorni, un rapporto di normale e pacifico vicinato tra israeliani e palestinesi?

Il normale e pacifico vicinato passa dall’effettivo raggiungimento dell’indipendenza della Palestina e di Gaza. Cisgiordania e Gaza devono diventare Stato Palestinese, libero dagli insediamenti illegali degli israeliani, libero dalle scorribande dei coloni, libero anche dalle scorribande delle forze armate israeliane. Sono queste le condizioni che dovrebbero realizzarsi. È difficile convivere tra popoli che si sono odiati così a lungo. È impensabile pensare ad una amicizia tra un servo e un padrone. Un rischio si corre sempre quando si cerca una amicizia. Ma se non si prendono rischi, è difficile ottenere qualcosa.

In questo momento Fatah è praticamente sparito. Riuscirà a recuperare un po’ di credibilità politica?

Fatah è stato indebolito dalla sistematica azione di svilimento della sua opera da parte dei governi israeliani che si sono succeduti. È chiaro che, nel momento in cui si scatena la violenza, i violenti sono quelli che ottengono più successo. La radicalizzazione si esaspera in guerra. Il problema non è immaginare quale sarà l’interlocutore. Nel momento in cui si dovesse concedere la vera indipendenza ai palestinesi, a quel punto, su quella base, si potrebbe persino pensare ad una delega della protezione dei confini alle autorità delle Nazioni Unite con forze di interposizione. Queste forze di interposizione dovrebbero però interloquire con due Stati sovrani. A questo punto si aprirebbe tutto un altro discorso. Bisogna avere il coraggio di rischiare. In caso contrario, tra qualche anno assisteremo all’ennesima guerra e prima o poi finirà male.

Hezbollah, a Sud del Libano, sta per il momento a guardare? Aspetta il momento propizio per colpire Israele?

Io penso che Hezbollah stia valutando quando si presenterà la volta buona di chiudere la questione con gli israeliani. Se in Cisgiordania dovesse scoppiare una nuova Intifada, diffusa e violenta, Hezbollah, potrebbe pensare di approfittarne. Per il momento siamo più alle chiacchiere. Ci si sta limitando al solito lancio di missili da una parte e dall’altra, con alcune vittime, purtroppo. Detto ciò, Hezbollah sta assumendo un atteggiamento piuttosto cauto. Il Libano, complessivamente, non ha nessuna voglia di essere trascinato in una guerra, considerate le condizioni in cui versa.

Ombre minacciose sembrano di nuovo avvolgere l’Europa. I fenomeni di antisemitismo devono farci preoccupare?

Sempre. I fenomeni di antisemitismo e di xenofobia antiaraba o antimusulmana sono fenomeni sempre gravi. Le società europee si allontanano sempre più dal ricorso dell’Olocausto. Nelle nostre società ci sono punti di vista di nuovi cittadini che affrontano varie questioni, anche storiche, diversamente. Chi è vissuto negli ultimi trent’anni ha avuto sotto gli occhi una supremazia israeliana totale, esercitata nei confronti dei palestinesi spesso con molta arroganza. Ecco che quando si guarda a questo conflitto non vengono più in mente Anna Frank e l’Olocausto. Si pensa invece ai palestinesi con le braccia e le gambe spezzate, ai coloni che sparano ai contadini. Una situazione del genere, purtroppo, alimenta un sentimento antisraeliano, che può diventare anche antisemitismo.