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In un dibattito con il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, Beppe Grillo ha sostenuto di preferire lo strumento del sorteggio al metodo elettivo per la selezione dei parlamentari. Anche se non è la prima volta che ciò accade, dico subito che l’attuale discussione sul tema del sorteggio in campo politico (spiegherò più avanti il significato della specificazione) costituisce un’occasione importante per riflettere sull’indispensabile vivificazione del rapporto tra comunità politica e soggetti politicamente rilevanti che agiscono all’interno delle strutture di autorità. Quando parlo di vivificazione intendo che le istituzioni rappresentative degli ordinamenti liberali e democratici possono essere integrate attraverso altri metodi di selezione del personale politico, ma che nelle stesse, per ragioni quantitative e/ o qualitative, lo strumento elettivo deve rimanere centrale sia per ragioni pratiche che per vincoli giuridici.
In un momento in cui sta crescendo la delegittimazione nei confronti del ceto politico sulla base di fenomeni strutturali che incidono sia sullo Stato sociale che sulle istituzioni rappresentative, il tema del sorteggio deve dunque – a mio avviso – essere visto nella prospettiva storica e interdisciplinare come uno strumento per la integrazione ( non la sostituzione) del parco degli strumenti di democrazia diretta e rappresentativa.
In questo intervento opererò, prima di tutto, un’osservazione preliminare al fine di inquadrare storicamente il problema. Proseguirò analizzando, in modo succinto, il tema della rappresentanza e le tecniche di decisione per la deliberazione su questioni e per la preposizione di individui a cariche autoritative. Infine mi occuperò del tema specifico dell’utilizzazione pratica del sorteggio nell’ambito delle assemblee parlamentari e della possibilità di estenderlo nell’attuale situazione come strumento integrativo e non alternativo ai meccanismi vigenti per quanto riguarda il procedimento legislativo.
LA CRISI DEL METODO ELETTIVO E DEI PARTITI POLITICI
Il metodo elettivo, divenuto egemone negli ordinamenti rappresentativi liberali e poi in quelli democratici di massa per ragioni qualitative e quantitative già nel XIX secolo, ora è sotto attacco. Faccio notare che la celebre frase di Montesquieu «Le suffrage par le sort est de la nature de la démocratie; le suffrage par choix est de celle de l’aristocratie», ricordata anche all’inizio del volume del gruppo catanese, si inserisce in un capitolo de L’ésprit de lois dedicato a «du gouvernement républicain et des lois relatives à la démocratie». In esso Montesquieu osservava che quando il popolo “en corps” possiede la potenza sovrana, ci si trova in una democrazia, mentre, quando la stessa è nelle mani di una parte del popolo, questa viene definita aristocrazia. Egli proseguiva sostenendo che il popolo nella democrazia è per certi versi il monarca, per altri il suddito. In questa prospettiva il popolo non può essere monarca che attraverso i suoi suffragi che esprimono la sua volontà, poiché la sua volontà è il sovrano stesso.
E qui l’affermazione che è celebre come quella precedente: «En effet, il est aussi important d’y régler comment, par qui, à qui, sur quoi, les suffrages doivent être donnés, qu’il l’est dans une monarchie de savoir quel est le monarque, et de quelle manière il doit gouverner».
In questa prospettiva Montesquieu analizzava il piano della cittadinanza attiva, che viene estesa al dèmos politico in maniera più o meno completa, ma evidenziava una differenza tra democrazia ed aristocrazia nel modo di preposizione degli individui alle cariche autoritative.
L’espansione progressiva della cittadinanza ha fatto sì che negli anni ‘ 50 del secolo scorso la discussione sugli ordinamenti democratici occidentali fosse senza alcun dubbio monopolizzata dal metodo elettivo e dai partiti come cinghie di trasmissione, riduzione e articolazione della volontà popolare e come strumenti di selezione della rappresentanza. Un simile fenomeno era osservabile su entrambe le coste dell’Atlantico nell’ambito di un globo diviso nella contrapposizione bipolare.
Ricordo come in Francia, alla fine degli anni Quaranta, si fosse attivata la ricerca su questi due elementi per opera di Prélot, Vedel, Aron, Duverger, Goguel e come già nel 1951 proprio Maurice Duverger avesse pubblicato Les partis politiques ( incentrato sul modello europeo e prima, con altri, nel 1950 il noto contributo su L’influence des systèmes electoraux sur la vie politique.
Negli Usa la tendenza era simile, anche se differente la metodologia monopolizzata dalla scuola comportamentistica di Chicago. Nell’ambito di un indirizzo attento ai processi di modernizzazione S. M. Lipset scrisse nel 1959 il volume The Political Man, The Social Basis of Politics, dove centrale era il momento elettorale, nella versione della libera scelta. Entrambe le impostazioni non facevano che aggiornare, tuttavia, le posizioni di James Bryce, che in Modern Democracies aveva già sottolineato come le votazioni elettive avessero permesso di passare dalle bullets ai ballots ( confermando la posizione di Georg Simmel, sulla funzione delle stesse). In ambito europeo esse avevano, inoltre, alle spalle la riflessione scaturita al termine della prima ondata di democratizzazione sulla crisi di partecipazione, che aveva visto la contrapposizione Kelsen- Schmitt, ma anche le suggestioni di Triepel e di Leibholz sul tema della rappresentanza e dello Stato dei partiti.
Se si allarga, dunque, la prospettiva è necessario riconoscere che il passaggio dal liberalismo oligarchico e le progressive e strutturali modificazioni della democrazia di massa ( sulla base dello sviluppo del West a scapito del Rest, del successivo spostamento degli assi geopolitici, della crisi del socialismo reale e degli avanzamenti tecnologici) abbiano portato nel tempo a cicliche crisi delle istituzioni rappresentative.
È dunque significativo che Bernard Manin, proprio nel 1992 anno dell’inizio della crisi di regime che ha investito l’Italia, abbia riproposto la posizione classica, verificabile successivamente sia nell’edizione definitiva francese e inglese del volume, che lega l’elezione alla forma di governo aristocratica e il sorteggio alla democrazia.
A metà della seconda decade del XXI secolo non soltanto il metodo elettivo viene messo sempre più in discussione sia dai cultori della democrazia deliberativa e partecipativa, sia da quelli che basano sul sorteggio le nuove speranze del metodo democratico, ma vengono suggeriti altri meccanismi per la presa delle decisioni elettive e deliberative.
Le recenti analisi di Florent Guénard su la Démocratie universelle e di Nadia Urbinati e Luciano Vandelli su La democrazia del sorteggio confermano la ric- chezza di un dibattito che non è puramente tecnico, ma filosofico e giuridico e investe principi e valori fondamentali delle comunità politiche contemporanee. La citata crisi della rappresentanza partitica e l’avvento della democrazia del pubblico evidenziano, inoltre, come si sia sviluppato il tema dell’intervento degli organi tecnici, ma anche quello della democrazia partecipativa e di quella deliberativa.
La crisi dello Stato democratico di massa basato sui partiti ha indotto dunque, anche sulla base della rivoluzione tecnologica, a cercare nuove ( vecchie) soluzioni: democrazia partecipativa; democrazia deliberativa; demarchia; democrazia illiberale, governance aziendale; burocrazia partitica confuciana; personalismo plebiscitario. Si sono insomma fatti avanti, oltre ai cultori delle cosiddette democrazie illiberali o delle democrature, anche i sostenitori della cosiddetta meritocrazia confuciana ( mi riferisco a D. A. Bell) o i teorici dell’aziendalismo rappresentato dal caso Singapore di Lee Kuan Yew. In questa prospettiva i primi, suggestionati dal consenso delle masse, considerano democratici ordinamenti che sono regimi plebiscitari o autocrazie e dimenticano la sempre incombente lezione del secolo XX, mentre gli altri sono, invece, colpiti favorevolmente da ordinamenti apparentemente meritocratici come la Cina, che – nel passaggio dal maoismo al confucianesimo burocratico – partitico ha adottato una rigida strategia del mutamento guidato per il ricambio programmato dell’élite; o da esempi aziendalistici come la città Stato di Singapore.
POLISEMIA DELLA RAPPRESENTANZA
Messo in rilievo questo punto, per discutere del tema odierno bisogna però avere contezza di cosa significhi rappresentare, a quale livello e con quali rapporti con il dèmos politico. Lasciatemi quindi evidenziare in maniera apodittica:
1. come il termine rappresentanza indichi una attività di sostituzione ( rendere presente) da parte di un collegio o di un individuo di un gruppo di dimensioni maggiori e come il rapporto rappresentativo possa essere di tipo giuridico, fiduciario o sociologico;
2. come il livello in cui si esercita la rappresentanza possa essere politico o non politico a seconda che venga esercitato in un livello in cui si possa partecipare o meno alla allocazione autoritativa dei valori;
3. come la rappresentanza in campo politico non si generi sulla base esclusiva del meccanismo elettivo, ma coinvolga differenti tipi di tecniche di preposizione di individui a cariche autoritative ( ereditaria; professionale; per concorso previo esame; per acquisto; per caratteristiche fisiche o intellettuali; per cooptazione; per acclamazione; per sorteggio).
4. come il moderno concetto di rappresentanza collegato con la politicità si connetta con la statualità e l’individualismo e venga esercitata su livelli differenziati, partecipi o meno della politicità;
5. come l’oggetto per la presa di decisioni da parte di un collegio pubblicistico ( di quelli privatistici non ci si occupa in questa sede) possa essere delle dimensioni più varie ( del Corpo elettorale e dei collegi rappresentativi o amministrativi); possa concentrarsi su questioni o sulla preposizione di individui a cariche autoritative; e possano essere prese attraverso procedure stabilizzate di tipo differente;
6. come il metodo per la presa delle decisioni in questione possa essere quello: di votazione ( deliberativa o elettiva) o per sorteggio ( deliberativo o elettivo);
7. come proprio il termine “democrazia rappresentativa” sia altamente distorcente. Democrazia rappresentativa è infatti un eufemismo ideologico per descrivere la repubblica di Madison ovvero un sistema di esercizio del potere politico attraverso la rappresentanza sulla base di giustificazioni quantitative e/ o qualitative. La democrazia in senso stretto evidenzia, invece, l’esercizio diretto del potere da parte dei consociati ( Rousseau);
8. come sin dalle origini negli Usa si sia aperto un conflitto tra la repubblica ( aristocratica nel senso montesquieuiano) e country democracy, che poi si è consolidato in quello tra organizzazione di partito e democrazia assembleare;
9. come la formula politica, giustificatrice del rapporto comando obbedienza stessa all’interno dei singoli ordinamenti possa essere frutto di una concezione noumenica o immanentistica. Alla base delle repubbliche ovvero degli ordinamenti rappresentativi si pone normalmente una concezione immanentistica dei rapporti interpersonali ed una valutazione qualitativa o quantitativa dell’impossibilità di una diretta gestione del politico da parte del dèmos;
IL SORTEGGIO PER LA FORMAZIONE DELLE ASSEMBLEE PARLAMENTARI E I LORO LAVORI
In questo specifico quadro gli ordinamenti democratici di massa sono dunque tendenzialmente di tipo rappresentativo ed emarginano ufficialmente i metodi non elettivi ( nomina, sorteggio, cooptazione, ereditarietà, funzione, acquisto), in quanto non giustificabili come formula politica invalente.
Per quanto riguarda specificamente il sorteggio, di fronte alle obiezioni quantitative e qualitative nei confronti della democrazia diretta, ritengo che esso non sia tanto legato alla capacità di autodeterminazione nel gruppo per cui tutti possono esercitare tutte le cariche, ma all’omogeneità dello stesso ovvero sulla base dell’inesistenza di interessi e differenze sensibili tra gli appartenenti al gruppo stesso. A differenza del sorteggio ordinario quello stratificato riproduce statisticamente l’universo da cui è tratto, ma solo apparentemente supera le obiezioni sulla sua sistematica utilizzazione derivante dalla mancanza di motivazione negli estratti a sorte e nella non esistenza di un rapporto di responsabilità ( accountability) del singolo estratto rispetto ai membri del collegio che egli rappresenta in forma esistenziale.
Nelle decisioni su questioni il sorteggio può essere giustificato da valutazioni numeniche oppure dall’indifferenza sui termini del risultato. In quelle per la preposizione di individui a cariche autoritative l’ispirazione può essere espressamente numenica oppure formalmente casuale come nella circostanza riferita dagli atti degli Apostoli per la sostituzione di Giuda fra gli Apostoli con Mattia.
In proposito è bene distinguere il tema della formazione delle Assemblee rappresentative da quello dell’organizzazione e del funzionamento delle stesse. Sotto il primo profilo, nel caso dell’ordinamento vigente il metodo del sorteggio per la selezione del personale politico trova davanti a sé il limite del circuito democratico disegnato dal Costituente ( artt. 1, 3, 48, 49, 51, 56, 57 Cost.), che ne impedisce l’utilizzazione. Per quanto riguarda il livello dell’organizzazione e del funzionamento delle Assemblee elettive di tipo politico, il sorteggio può costituire uno strumento integratore dei meccanismi della rappresentanza fiduciaria. Il problema è, da un lato, la rappresentanza, e, dall’altro, la responsabilità in un ambito ed un livello che non può portare al coinvolgimento di tutti per ragioni qualitative e quantitative. Come contribuiscono a confermare gli autori del volume Democrazia a sorte, oggi la casualità del sorteggio è collegata con il calcolo probabilistico, per cui si può costruire un campione rappresentativo della società ( stratificato) per rappresentare la società (sotto il profilo speculare), ma ciò non toglie che nel corso di una simile operazione manchino gli effetti positivi forniti dal rapporto di rappresentanza e di responsabilità, generati dal procedimento elettivo e assenti nel sorteggio casuale o stratificato.
Per quanto riguarda la specifica utilizzazione del sorteggio nelle assemblee parlamentari, è evidente che la società di massa ha provocato effetti incisivi, riducendo in maniera drastica l’utilizzazione del sorteggio. In proposito, ricordo l’uso del metodo in oggetto nel periodo statutario sino alla riforma dei regolamenti nel 1919 per quanto riguarda il sistema degli uffici e per le questioni di incompatibilità. Il confronto con l’attuale previsione regolamentare di tipo gruppocratico evidenzia la regressione nell’uso del sorteggio, che viene previsto per Camera e Senato esclusivamente per temi liminari.
Il sorteggio è dunque uno dei possibili strumenti per la presa di decisioni pubblicistiche. Esso ha una tradizione risalente ed è stato utilizzato in maniera sempre più limitata nelle società di massa, caratterizzate dalla presenza dei partiti e del metodo elettivo. La crisi incisiva degli ultimi anni ha riproposto opzioni alternative, che ripresentano l’avversione alla mediatizzazione della rappresentanza fiduciaria tradizionale. I casi islandese, irlandese e canadese costituiscono esempi di una simile tendenza, ma descrivono anche la limitatezza della possibile applicazione pratica. In questa specifica prospettiva si pone il progetto dell’assemblea integrata da cittadini estratti a sorte che, nel caso suggerito dal gruppo di Catania, dovrebbe aumentare il vantaggio sociale delle decisioni acquisite. Simili ipotesi risultano inapplicabili, ripeto, nell’attuale contesto costituzionale e regolamentare italiano. In modo drastico, confliggono con alcuni principi supremi che caratterizzano l’ordinamento costituzionale vigente.
Questo non vuol dire, però, che alcune suggestioni proposte non possano essere opportunamente adattate allo stesso al fine di farle divenire uno strumento integrativo del procedimento di decisione soprattutto attraverso la fase dell’istruttoria legislativa. Ad es. opportune modifiche all’art. 79, comma 4 del Regolamento della Camera dei deputati potrebbero fornire la possibilità di integrare l’istruttoria legislativa con l’ausilio di commissioni di cittadini selezionati con metodi rappresentativi adeguati al fine di approfondire la discussione e rilegittimare il procedimento. In questo modo la democrazia deliberativa si affiancherebbe alla rappresentanza fiduciaria in campo politico.
Si tratterebbe, dunque, di un intervento limitato che certo non basta ma potrebbe affiancarsi ad altri più tradizionali, volti ad incidere sul circuito rappresentativo. In questa prospettiva ritengo rimanga strategico riattivare il circuito democratico partecipativo che ha visto scomparire nella sregolazione l’art. 49 Cost.. Diritti degli iscritti e selezione dei candidati, affiancati da una attenzione alla legislazione elettorale di contorno e al sistema elettorale in senso stretto costituiscono interventi integrati per rispondere alla crisi di legittimazione dell’ordinamento democratico. Non sarebbero la soluzione salvifica, non prefigurerebbero “l’uomo della provvidenza”, ma aiuterebbero a ristabilire funzionalità, correttezza ed efficienza sistemiche che anche gli autori del gruppo catanese auspicano.