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Non appartengo alla scuola di pensiero ' niente sarà come prima', se il riferimento è all'approccio comportamentale degli esseri umani dopo il ' grande evento globale' del Covid 19. Tra le parole consumate per l'uso compulsivo fattone in questi mesi di costrizione casalinga, c'è ' resilienza', nel senso dell'attitudine a trasformare una difficoltà in una risorsa. Ebbene l'interpretazione completa del lemma contiene anche il concetto per cui, appena è passata la tempesta, fosse solo per loro, gli augelli tornerebbero tutti a far festa, insieme alle galline tornate in su la via, come ( più o meno) diceva il sommo nel Sabato del villaggio. E tutto si ricomporrebbe nel ciclo della vita. Salvo qualcosa di nuovo, indotto da chi avesse il potere di farlo. Qualcosa che trova minore resistenza a ' passare' perchè nel clima dell'emergenza si è dimostrato necessario. L'uso del remoto per svolgere attività lavorative, per esempio, che ha coinvolto fasce larghissime di popolazione con effetti sicuramente importanti e positivi, ma che ha anche spalancato le porte a nuove forme di sfruttamento intensivo e di alienazione ( parole desuete estratte da glossari marxiani...). L'online come cifra del nuovo tempo, però, non si ferma allo smart working ma lambisce anche le sponde della democrazia. Si pensi al dibattito, che pure ha avuto un suo perché tra i costituzionalisti, sul voto da remoto per le deliberazioni parlamentari, peraltro esplicitamente escluso dal dettato costituzionale, che invece esige la presenza fisica dei votanti. I sostenitori dell'innovazione propendono per una interpretazione evolutiva del concetto di ' presenza' da applicare limitatamente ai momenti di emergenza come quello che stiamo vivendo. Ma, tecnicalità giuridiche a parte, il punto è che l'applicazione del metodo ci mette poco a scivolare dall'emergenza - peraltro già in Fase 2 - alla ordinarietà. E' l'utopia o la distopia - dell'agorà digitale, che faceva parte di qualche programma elettorale nelle elezioni del 2018. Ma non è finita: siamo alla vigilia di un voto regionale che coinvolgerà più di un terzo della popolazione italiana. Se le pressioni dei presidenti delle sei regioni interessate troveranno ascolto nel governo, si potrebbe andare a votare addirittura a fine luglio. E se i desideri dei capi di partito dovessero realizzarsi, ci potrebbero essere modifiche alle leggi elettorali, che ogni regione dovrebbe recepire, per escludere i voti di preferenza in favore delle liste bloccate. Insomma: sotto il manto generoso del Coronavirus avremmo un turno elettorale con una probabilissima drastica riduzione della partecipazione ( al 20, 30 per cento degli aventi diritto?), con liste già confezionate, sullo schema in auge nel Parlamento nazionale. Liste che potremmo consultare comodamente in cabina, non quella elettorale, però, ma quella sui litorali italiani. Che dire? Epifanie di una democrazia della fase 2? In questo contesto che si nutre bulimicamente di provvedimenti governativi come fossero noccioline a disposizione di un orango tenuto a stecchetto da due mesi ( 264 ne contano l’ 8 maggio i ricercatori di Openpolis), informatissimi insider raccontano dell’imminente liquidazione di Conte e non per andare al voto ma per andare avanti con un altro capitano del governo. Scommetterei invece sull’inamovibilità del predetto. Almeno fino alla fine dell’emergenza. Dopo, passata la tempesta, il sabato del villaggio ( odo augelli eccetera..)