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E dai: è il secondo. Al terzo, in base alle classiche regole del giallo british immortalate da Agata Christie, siamo di fronte a una prova. Ma forse non è necessario. La prova già c’è: riguarda la non proprio perfetta adesione della prassi gialloverde al rispetto delle procedure per quanto riguarda incarichi istituzionali. Soprattutto da lasciare.
Giudicato colpevole dal Tribunale di Genova dei reati di peculato e falso e di conseguenza condannato a tre anni e cinque mesi con interdizione perpetua dai pubblici uffici, il viceministro Edoardo Rixi ha annunciato di aver dato le dimissioni “nelle mani di Salvini” per non creare problemi al governo. Ignorando, al contrario, di averli creati eccome, anche se su queste cose sembra sia diventato cool fare spallucce.
Rixi è infatti viceministro in quanto nominato sottosegretario con deleghe speciali dal Consiglio dei ministri su proposta del presidente del Consiglio. Dunque l’unico titolato a riceverle, ed eventualmente accettarle, è Giuseppe Conte. Così è successo, ma solo dopo: non è la stessa cosa. Forse “nelle mani di Salvini” è un incidente.
Il che risulta comunque grave. O forse esprime la voglia di considerare il capo leghista leader assoluto non solo della vita interna del partito (eh, quanto manca l’articolo 49 della Costituzione...) bensì anche del governo. Il che risulta gravissimo. Almeno per chi crede che il rispetto delle regole sia obbligatorio soprattutto da parte di quanti rivestono ruoli e incarichi pubblici.
A discolpa - politica, non giudiziaria: per quella vale, soprattutto in questo giornale, l’esercizio assoluto di garantismo - dell’esponente leghista si deve dire che non è l’unico a comportarsi così. Una manciata di ore prima infatti, stavolta sotto il profilo della legittimità parlamentare e non governativa, pure in casa Cinquestelle era andato in onda lo stesso copione. Dopo aver sparato a zero contro la leadership di Luigi Di Maio, infatti, proprio nella mani di Di Maio medesimo il senatore Gianluigi Paragone aveva rassegnato le sue dimissioni da palazzo Madama.
Anche qui le procedure sono diventate un optional, visto che Paragone è senatore per volontà degli elettori e dunque se si vuole dimettere lo deve fare dinanzi l’aula del Senato, non nel ristretto a quattr’occhi con il vicepremier. Si dirà: sono pignolerie, la sostanza è la stessa. No, non è la stessa. E la sostanza sta nel rispetto delle regole, appunto, non nelle decisioni personali comunicate via voce a chi pare e piace. Se a vanificarle, non adeguandovisi, sono gli stessi parlamentari e componenti del governo come possono poi pretendere che lo facciano i cittadini?