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La storia dei Presidenti della Repubblica è stata spesso caratterizzata da rapporti conflittuali con gli inquilini di Palazzo Chigi e i segretari dei partiti che li avevano fatti eleggere. Il Colle quasi sempre ingrato con i suoi grandi elettori
Lo scontro, o la tensione, fra Sergio Mattarella e Matteo Renzi è probabilmente meno forte della rappresentazione fattane sui giornali dai retroscenisti, ma le resistenze opposte dal presidente della Repubblica alla fretta attribuita, a torto o a ragione, al presidente del Consiglio di andare alle elezioni anticipate dopo la dura sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale confermano una costante dei rapporti fra il capo dello Stato e chi ne ha maggiormente voluto l’elezione. Ogni inquilino del Quirinale, prima o dopo, ha procurato delusioni o problemi a chi più si è prodigato a mandarvelo.
L’unica eccezione è stata quella di Carlo Azeglio Ciampi, mai, ma proprio mai entrato in collisione col suo grandissimo elettore, che fu l’allora segretario dei Ds Walter Veltroni. Mai, però, forse perché, una volta fattolo eleggere, il 13 maggio 1999, alla prima e unica votazione, Veltroni non ebbe materialmente occasione di avere problemi con lui nei sette anni del mandato. Al mio amico Walter non capitò di guidare alcun governo o di gestire in quel periodo passaggi politici particolarmente difficili. Già nel 2001 egli si ritirò, diciamo così, sul Campidoglio per fare semplicemente il sindaco di Roma e ne scese, per l’avventura del Pd, dopo sette anni, quando già era finita l’esperienza di Ciampi al Quirinale.
Le altre storie presidenziali sono state tutte di segno diverso.
*** Di Enrico De Nicola, il primo della lista dei presidenti, neppure affacciatosi peraltro al Quirinale, vi ho già ricordato di recente le dimissioni che minacciava di continuo. E che misero a dura prova i nervi pur saldissimi di un ancora giovanissimo Giulio Andreotti, il braccio destro del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.
Di Luigi Einaudi, anche lui eletto capo dello Stato con la spinta democristiana, vi ho raccontato la sorpresa fatta alla Dc nominando nel 1953 il governo di Giuseppe Pella, così poco gradito al segretario scudocrociato Amintore Fanfani da essere definito freddamente ' amico' e da durare poco più di quattro mesi.
Giovanni Gronchi fu eletto nel 1955 con un’operazione parlamentare a sorpresa su cui scommisero anche le sinistre per superare il centrismo, ma nel 1960 nominò un governo, quello di Fernando Tambroni, che anziché l’interesse dei socialisti si guadagnò i voti dei missini. Scoppiò il finimondo sulle piazze, con morti e feriti, come vi ha raccontato di recente con la sua solita precisione il buon Giuseppe Loteta, testimone di quei drammatici fatti.
Antonio Segni, succeduto nel 1962 a Gronchi per volontà dell’allora segretario della Dc Aldo Moro allo scopo di bilanciare politicamente sul versante moderato la svolta del centro- sinistra, per poco non troncò la collaborazione di governo con i socialisti nella crisi dell’estate del 1964. Allora, confortato dalle assicurazioni del generale Giovanni De Lorenzo di un saldo controllo delle piazze, egli tentò il ritorno al centrismo offrendo la presidenza del Consiglio a Mario Scelba. Che ha raccontato nella sua autobiografia di avere rifiutato, suggerendo di lasciare Moro al suo posto, quando sentì da Segni che c’era di mezzo proprio quel generale, già capo del servizio segreto. Che fu poi accusato di avere predisposto un colpo di Stato, o qualcosa che gli somigliasse.
Interrotto per un grave malore proprio quell’anno il mandato presidenziale di Segni, al Quirinale fu eletto Giuseppe Saragat per impulso sem- pre di Moro, interessato alla stabilizzazione del centro- sinistra. Ciò avvenne fra le proteste e i mugugni della maggiore corrente del partito dello stesso Moro: quella dei ' dorotei', che lo accusavano di essere troppo indulgente con gli alleati, peraltro avviati verso un tentativo di rafforzamento con l’unificazione socialista.
Dopo le elezioni politiche del 1968, quando fu defenestrato proprio dai ' dorotei', che lo scavalcarono a sinistra realizzando con i socialisti una edizione ' più coraggiosa e incisiva' del centrosinistra, Moro si aspettò inutilmente un aiuto da Saragat. Che non ci pensò proprio di dargli una mano. Anzi, dopo qualche anno, in occasione di una crisi, egli gli tolse malamente un mandato di governo conferitogli su proposta della Dc formalmente perché tardava a chiudere le trattative, in realtà perché sospettava che Moro volesse privilegiare i rapporti con i socialisti a svantaggio dei socialdemocratici, tornati nel frattempo a separarsi dai fratelli o cugini di area.
*** A Saragat subentrò al Quirinale alla fine del 1971 Giovanni Leone. Che, pur eletto da una maggioranza di centrodestra dopo il fallimento delle candidature di Amintore Fanfani e di Moro, che non era riuscito neppure ad avere la designazione del suo partito, Leone fu un presidente davvero notarile. Egli si limitò a certificare le maggioranze via via prodotte dai risultati elettorali e dai rapporti fra i partiti, nominando il governo Andreotti della ' centralità ' con i liberali di Giovanni Malagodi, poi i governi di centro- sinistra di Mariano Rumor e, nuovamente, di Moro, infine i governi monocolori di Andreotti sostenuti in modo decisivo dai comunisti con la formula della cosiddetta ' solidarietà nazionale'.
Subentrato però nel 1978 il tragico sequestro di Moro ad opera delle brigate rosse, Leone non condivise la linea della fermezza adottata dal governo. E, spiazzando i vertici della Dc e del Pci, assecondò la linea ' umanitaria' dei socialisti, condivisa all’ultimo momento nello scudo crociato solo dall’allora presidente del Senato Fanfani.
In particolare, Leone predispose la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti per reati di terrorismo con cui i brigatisti rossi pretendevano di scambiare l’ostaggio. Purtroppo i terroristi precedettero il presidente della Repubblica uccidendo Moro prima che la Besuschio fosse graziata. E Leone, sia pure contestato formalmente per altri motivi, bersagliato da una campagna scandalistica condotta sulle tracce di un libro scritto da Camilla Cederna, poi condannata per diffamazione, fu costretto a dimettersi sei mesi prima che scadesse il proprio mandato. Avrebbe ricevuto solo dopo una ventina d’anni le scuse di chi ne aveva voluto la rinuncia: radicali, comunisti e democristiani. Tardi, certo, ma fortunatamente in tempo perché lui si potesse togliere la soddisfazione di ringraziare di persona, essendo ancora vivo.
Dopo Leone arrivò al Quirinale Sandro Pertini, per il quale fu decisivo l’appoggio dei comunisti, che lo preferirono agli altri socialisti proposti dal segretario del partito Bettino Craxi. Ma bastò poco più di un anno al nuovo presidente per sorprendere i vertici sia del Pci sia della Dc conferendo nell’estate del 1979 l’incarico di presidente del Consiglio a Craxi. Che non riuscì a fare il governo per l’indisponibilità della Dc, ma vi riuscì dopo quattro anni rimanendo a Palazzo Chigi sino al 1987. Il danno politico per il Pci fu enorme, per quanto mitigato nel 1992 e nel 1993 dalle disgrazie giudiziarie e politiche dell’avversario, o concorrente.
A Pertini nel 1985 subentrò Francesco Cossiga con un’operazione politica condotta personalmente dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che però nell’ultimo anno del mandato presidenziale dell’amico e collega di partito lo liquidò pubblicamente definendo il suo caso ' clinico'. Erano i tempi del Cossiga ' picconatore', che ogni sera, o quasi, ci faceva rifare all’ultimo momento le prime pagine dei giornali per le sue veementi dichiarazioni contro tutti e tutto.
Il successore di Cossiga fu nel 1992, in un clima di emergenza creato dall’attentato mafioso di Capaci al magistrato Giovanni Falcone, il presidente della Camera appena eletto Oscar Luigi Scalfaro. Al quale, per quanto spinto alla fine dall’emozione per la strage mafiosa, aveva preparato il terreno come solo lui sapeva fare Marco Pannella. Che lo considerava come l’uomo più onesto della Dc. Ma, come era già accaduto a De Mita con Cossiga, il leader radicale ripudiò praticamente il suo idolo non perdonandogli la fretta di sciogliere anticipatamente le Camere elette meno di due anni prima, ma soprattutto il giustizialismo esploso in lui con la vicenda di Tangentopoli.
Con Scalfaro, proveniente d’altronde dalla loro professione, i magistrati conquistarono anche la condizione di autorevoli interlocutori del capo dello Stato nella pratica delle consultazioni al Quirinale per la soluzione delle crisi di governo. Toccò, in particolare, al capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli di essere chiamato al Quirinale per un’udienza che servì al presidente della Repubblica per decidere che Craxi, benché designato dalla Dc, non potesse ricevere l’incarico di presidente del Consigliere, per quanto non coinvolto ' al momento' nelle indagini Mani pulite sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che spesso ne conseguiva. ' Al momento', fu evidentemente spiegato a Scalfaro, significava che potesse esserlo in seguito, come accadde dopo qualche mese. Ai sette anni di Scalfaro, che peraltro Craxi aveva contribuito a fare eleggere al Quirinale preferendolo all’allora presidente del Senato Giovanni Spadolini, in corsa dopo la strage di Capaci come una delle due soluzioni ' istituzionali' della successione a Cossiga, seguirono i sette di Ciampi, di cui ho già scritto parlando del ruolo di regista svolto da Veltroni.
Dopo Ciampi fu la volta di Giorgio Napolitano, dal quale il partito d’origine non ebbe certamente sconti, da lui incalzato più volte sulla strada delle riforme e infine fermato nel 2011, esaurita l’esperienza dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi, al palo del Gabinetto tecnico di Mario Monti. Che il capo dello Stato preferì alle elezioni anticipate, pur sapendo che avrebbe potuto vincerle quasi come in una passeggiata il Pd guidato da Pier Luigi Bersani.
Adesso è la volta di Mattarella. Che, portato praticamente al Quirinale meno di due anni fa da Matteo Renzi, anche a costo di rompere il cosiddetto Patto del Nazareno con Berlusconi, con tutte le complicazioni che sono derivate sul percorso parlamentare e infine referendario della riforma costituzionale, si è messo di traverso sulla strada di un rapido ricorso alle elezioni anticipate preferita dal presidente uscente del Consiglio come alternativa a un improbabile governo di larghissime intese e di ' responsabilità nazionale'. Che sarebbe l’unico, secondo Renzi, a potersi realisticamente porre l’obbiettivo preferito da Mattarella di portare la legislatura alla sua conclusione ordinaria, cioè sino ai primi mesi del 2018.
Renzi probabilmente non confesserà mai dubbi o pentimenti sulla scelta compiuta a favore di Mattarella quasi due anni fa, ma qualche amico sta già borbottando e condividendo l’opinione andreottiana che in politica la gratitudine sia il sentimento del giorno prima, non del giorno dopo.
FRANCESCO DAMATO