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«Le attestazioni di stima che sto ricevendo in queste ore mi rincuorano e mi spingono ad andare avanti con maggiore forza», dichiara al Dubbio Roberto Rossi, ormai ex procuratore di Arezzo, all’indomani della decisione del Plenum di non confermarlo nell’incarico. «L’amarezza - prosegue - è tanta ma, come vede, sono comunque in udienza per svolgere regolarmente il mio lavoro». Quando lo contattiamo, infatti, il magistrato è in aula per rappresentare la pubblica accusa in un processo molto delicato, quello sugli illeciti commessi nella realizzazione della variante stradale di Arezzo. Fra i messaggi di vicinanza, il più apprezzato, ci tiene a ricordarlo Rossi, viene dai suoi collaboratori. «Nel doveroso e assoluto rispetto per le decisioni dell’organo dì autogoverno, riteniamo di manifestare al dott. Rossi la nostra gratitudine per l’impegno e la disponibilità profusi in questi anni per organizzare e guidare l’ufficio. Lo ringraziamo per le sue doti di umanità e per la capacità di ascolto e condivisione dei problemi di ciascuno». Così i sette pm della Procura di Arezzo. «La decisione del Csm è - fanno notare al Dubbio fonti qualificate del Palazzo di Giustizia toscano incomprensibile: non si capisce come il Csm possa aver, sulla base degli stessi elementi che erano stati oggetto di una archiviazione per incompatibilità ambientale, decidere la non riconferma del procuratore». Un classico caso di ne bis in idem.
La pendenza di un procedimento disciplinare, per altro, non sarebbe neppure ostativa per la riconferma in un incarico direttivo. In questo caso l’archiviazione era stata piena. Il tema riguardava l’eventuale interferenza della consulenza con la Presidenza del Consiglio voluta dall’allora governo Letta e poi Renzi con la gestione del procedimento su Banca Etruria nel cui cda sedeva il padre del ministro delle Riforme dell’epoca, Maria Elena Boschi. Fra le “anomalie” di questa vicenda, il mancato concerto ( il giudizio per la riconferma, ndr) da parte del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, contente giudizi di valore, appunto, sulla conduzione delle indagini sul crac di Banca Etruria. Giudizi di valore ripresi, poi, anche dal Csm per motivare la mancata riconferma. «L ‘ autonomia e l’indipendenza del magistrato nell’esercizio dell’attività giurisdizionale è sacra», fanno notare sempre dal Palazzo di Giustizia di Arezzo.
A microfoni spenti, molti magistrati, si spingono anche oltre. «La non riconferma di Rossi è la prima conseguenza del Palamaragate: l’anti politica ha ormai contagiato anche il Consiglio superiore della magistratura», dichiara chi conosce bene le dinamiche di Palazzo dei Marescialli.
L’obiettivo è quello di cancellare un’intera stagione della magistratura associata. Non è un caso che il relatore della delibera con cui Rossi è stato messo alla porta sia stato Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite, da sempre fustigatore dei costumi dei politici e, ora, delle toghe.
A tremare adesso sono tanti direttivi e semi direttivi nominati durante la scorsa consiliatura, quella guidata da Giovanni Legnini. Una consiliatura che nominò oltre mille fra procuratori e presidenti di Tribunale. Per tanti di loro la riconferma è divenuta un terno al lotto. Il muro che è caduto, a tal proposito, è quello legato al parere espresso dal Consiglio giudiziario. L’organo a stretto contatto con i magistrati che operano negli uffici giudiziari. Ai Consigli giudiziari si vagliamo le segnalazioni sul lavoro delle toghe e rapporti con avvocatura e colleghi. Nel caso di Rossi il parere era più che lusinghiero. Ma, come si è visto, non è stato sufficiente.
A memoria non si ricorda un parere del Consiglio giudiziario smentito dal Csm. Tutta materia, da domani, per il Tar.