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I magistrati - lo si ripete da anni, decenni - non solo devono essere indipendenti ma devono anche apparire indipendenti. E lo ha ricordato giorni fa, nelle ore in cui esplodeva il caso Maresca - il magistrato-politico che indosserà la toga nella Corte d’Appello di Campobasso e la “fascia tricolore" di consigliere nel comune di Napoli - lo ha detto, dicevamo, la ministra Cartabia. Ma al di là delle buone intenzioni, la questione appare sostanzialmente irrisolvibile perché non appena qualcuno prova ad alzare la mano per chiedere un passo indietro, una limitazione dei magistrati in politica, ecco che viene immediatamente sfoderato l’articolo 51 della Costituzione, il quale garantisce l’elettorato passivo a tutti i cittadini italiani, magistrati compresi, naturalmente. A questa obiezione potremmo rispondere citando l’articolo 98 della Carta il quale, e lo diciamo con le parole di Giovanni Maria Flick, “stabilisce che per legge si possono indicare limitazioni per i magistrati al diritto di iscriversi ai partiti politici”. E tra i due articoli, tanto per complicare la questione, troviamo una sentenza della Consulta la quale ha ribadito che “non è contraddittorio né lesivo dei diritti politici consentire ai magistrati di partecipare, sebbene a determinate condizioni, alla vita politica, anche candidandosi alle elezioni o ottenendo incarichi di natura politica e al tempo stesso prevedere come illecito disciplinare la loro iscrizione a partiti politici nonché la partecipazione sistematica e continuativa all'attività di partito”. Insomma, un ginepraio costituzionale e legislativo dal quale è difficile uscire. Certo, dovrebbe essere la politica, il legislatore a intervenire, a fissare paletti più stringenti, più rigidi sull’attività politica dei magistrati. Ma lo sappiamo bene: da trent'anni a questa parte, dall'esplosione di Mani pulite a oggi, la politica vive nel terrore della magistratura e, dunque, difficilmente sarà in grado di regolare una materia tanto incandescente. In questi anni le procure - alcune procure - sono entrate surrettiziamente nel nostro Parlamento con la forza minacciosa di inchieste che hanno ribaltato maggioranze e determinato la caduta di più di un governo. Hanno fatto le fortune di alcuni partiti, di alcuni movimenti e, nello stesso tempo, indebolito leader politici. Non ultimo l’ex premier Matteo Renzi che è alle prese con un'inchiesta resa ancora più complicata dalla pubblicazione di atti che poco o nulla avranno a che fare con l’inchiesta. Eppure, a ben vedere, questo potere sembra essere scappato di mano e così sì è avuto un effetto paradosso, una strana eterogenesi dei fini che ha colpito la stessa magistratura, la quale sta vivendo una crisi di credibilità senza precedenti. L’aver ceduto alla seduzione di un potere in grado di fare e disfare governi e maggioranze e di determinare sfortune e disgrazie di partiti e leader, ha corroso, logorato la sua reputazione e il suo prestigio. Una hybris che ha raggiunto il suo apice e insieme il suo punto più basso col caso Palamara, ovvero con quel sistema che ha trasformato la nostra magistratura in un luogo di gestione del potere per il potere. Insomma, a ben vedere l’ingresso delle toghe in politica non è il peggiore dei mali; ben più insidioso è l’ingresso surrettizio della magistratura che più di una volta ha condizionato la nostra democrazia con la forza di inchieste “mirate”. È questo potere che va spezzato e può farlo solo la parte sana della magistratura, quella gran massa di servitori dello stato che lavora in silenzio e subisce la forza selvaggia e incontrollata di alcune procure.