Ci sarà il tempo, non ora, per ragionare dal punto di vista della politica, su questa lunga sospensione di vita risucchiata dalla pandemia, in una prospettiva non piegata all'impulso della militanza e, dunque, più oggettiva. Quello che oggi si può dire, però, è che si apre uno spazio importante per riprogettare il tempo nuovo. Per necessità e urgenza, come si dice per i decreti legge, non per ghiribizzo estetico.
Lo scenario è di quelli che sarebbero forse piaciuti a Serge Latouche, profeta della decrescita felice, con i mari e le atmosfere che si riprendono la limpidezza negata dallo sfruttamento intensivo, e la vita che si riprende un ritmo non imposto dalla cacofonia turbocapitalistica. La decrescita, alla fine c’è, ma c’è poco da essere felici: meno 3% il Pil mondiale stimato a metà aprile ( nella grande e rovinosa crisi delle banche americane, nel 2008, il crollo del Pil si aggirava intorno allo 0,1), 9000 miliardi di dollari bruciati, augurandoci che nella seconda metà dell’anno la pandemia smorzi la sua virulenza e si torni a vita normale. Peggio ancora per Eurolandia, stimata meno 7,5%, e per l’Italia, meno 9,1. L’Italia, dunque, è valutata sotto l’ 1,6% del disastro medio europeo, che non è che vuol dire mal comune mezzo gaudio, però aiuta a ridare le proporzioni. A ben vedere, dunque, questo svantaggio cosmico qualche elemento di razionalizzazione per le cose italiane lo insedia. Almeno per il momento. La condivisione delle difficoltà in Europa partorisce il Recovery Fund che rappresenta un salto culturale non di poco per la mentalità arcigna ed esosa di certi anseatici che avrebbero volentieri sparato a pallettoni sul destriero del debito pubblico su cui cavalchiamo di gran carriera verso il radioso orizzonte del 160%. Per adesso incassiamo: denari sul bancone, dicono i mercanti delle parti mie. Ma i nordici non hanno smesso di ringhiare ed occorrerà manovrare per bene quei danari. E questo è il primo mattone del nuovo disegno di ri- progettazione razionale della politica: salviamo la vita a quelli che abbiamo lasciato per strada in questa tregenda del Coronavirus, certo, ma ricordiamoci che le risorse vanno destinate a sostenere lo sviluppo.
Dunque l’economia reticolare delle nostre piccole e medie imprese e dell’artigianato, che moltiplica e stabilizza occupazione e ricchezza. Mai visti tanti soldi tutti insieme: 80 miliardi tra “Cura” e “Rilancio”, a cui si aggiungerebbero addirittura altri 100 a fondo perduto del Recovery, secondo quello che il governo fa circolare in queste ore. Roba da piano Marshall. E’ da qui che il governo dovrà assumere la massima energia da immettere nello sviluppo, senza lasciarsi distrarre dalla tentazione più facile del cercare voti con l’assistenza pret à porter. Che poi, i voti non li porta nemmeno, fidatevi! Ce la farà?
Secondo mattoncino: non c’è un leader, politico qualunque, membro del governo o dell’opposizione, capitato lì per caso oppure mandato apposta, che ogni giorno non ripeta il mantra della burocrazia. Troppe leggi, troppe complicazioni, troppo di troppo. Bene, e allora? Visto che siamo tutti d’accordo, perché non procediamo col napalm? A spazzare tanta immondizia polverosa facciamoci mettere mano, però, anche i rappresentanti degli imprenditori, dei cittadini normali che devono sbattere il muso quotidianamente su carte assurde, scritte coi piedi, dai tanti che devono avere a che fare con leggi che sono solo un rinvio a qualcosa d’altro che non si capisce.
Se fate una commissione non dimenticate gli esperti: terzo mattoncino. Siamo figli di una stagione dal sentimento ambiguo rispetto al concetto di competenza. E’ sicuramente il Parlamento che nella storia dell’Italia repubblicana più di ogni altro ha sparato sulla competenza nella politica, valutata come disvalore in quanto evocatrice di professionalità, di uso dell’artificio dialettico e un po’ leguleio per eludere i problemi e, visto che non si capisce bene cosa vuoi fare e cosa nascondi dietro le tue parole, è sicuro che ti stai soltanto facendo i cavoli tuoi. Un sentiment qualunquista e molto italiano che si è chiamato “uno vale uno”, siamo solo portavoce del popolo sovrano, eccetera. Fino a quando, poi, non è stato espugnato il palazzo d’Inverno e non si è ripiegata all’inverso l’apertura alla scatoletta di tonno ( o di sardine? Non ricordo a quale specie ittica si riferiva Grillo). Al punto da chiamare in soccorso coorti di professionisti della competenza. Guardate le commissioni di esperti: i bravi giornalisti ne hanno contati almeno 250 membri, ma sono dati di aprile, potrebbero essere aumentati. Che vuol dire? La competenza serve, allora? Talmente tanto da chiamarli tutt’insieme, così, per recuperare quella persa per strada?
Non è che competenza politica vuol dire altro, tipo studiare e praticare per saper scegliere? Per scegliere con competenza e assumendosene la responsabilità? Si chiamerebbe politica proprio per questo.