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Intanto se Vincenzo Ottorino Gentiloni Silveri si spegneva nel 1916, è esattamente cento anni dopo che un suo discendente viene incaricato di presiedere un governo finalizzato a uscire da una nuova situazione di stallo. E allora come adesso c’è di mezzo una questione di legge elettorale. Paolo Gentiloni Silveri deve infatti guidare un governo con lo scopo principale di pervenire di un nuovo sistema di voto in grado di far superare lo stallo verificatosi dopo le elezioni del 2013. Nel 1912, invece, una riforma elettorale – approvata il 30 giugno – aveva introdotto il suffragio universale maschile su base di collegi maggioritari uninominali. Il numero di aventi diritto al voto era passato dai circa tre milioni iniziali a quasi nove milioni di elettori. Una riforma elettorale che era stato il prezzo pagato dal premier Giovanni Giolitti ai socialisti di Leonida Bissolati per l’appoggio ottenuto durante la guerra italo– turca. Ma essendo la maggioranza degli elettori operai e di estrazione popolare si temeva una maggioranza guidata dal partito socialista, che all’epoca comprendeva anche posizioni massimaliste e anarcoidi, oggi diremmo populiste. In questo senso, l’azione di Vincenzo Gentiloni fu decisiva per consentire di affrontare la nuova legge elettorale, collegio per collegio, con lo scopo di far perdere i socialisti. Il patto Gentiloni portò deliberatamente, alle elezioni del 1913, l’elettorato cattolico a schierarsi con i liberali giolittiani con il fine esplicito di fermare l’avanzata socialista, marxista e anarchica e consentire a Giolitti la formazione di un nuovo governo.
Anche da questo punto di vista – corsi e ricorsi della storia – c’è un comune riferimento alla cultura liberale. Quando infatti, qualche anno fa, hanno chiesto a Paolo Gentiloni cosa occorresse di più al Pd, lui rispose chiaramente: « Il pensiero liberale: nel partito democratico ci saranno sia eredi di una cultura comunista che è stata sconfitta dalla storia, sia militanti di una cultura cattolica che ha avuto torti e ragioni. Possibile che manchino interpreti di quella liberale, che ha vinto la battaglia culturale del Novecento? Cercansi disperatamente – concludeva – interpreti della cultura liberale » . Allo stesso modo, i punti del patto firmato nel 1912 furono inseriti nell’accordo fondativo dell’allora neonato Partito liberale. Nello spirito del “ patto”, infatti, Gentiloni e Giolitti diedero vita al Partito liberale del periodo immediatamente precedente alla prima guerra mondiale, al quale s’ispireranno, dopo la seconda guerra mondiale, i fondatori dello stesso Pli. Nel Partito liberale, fondato appunto nel 1912, grazie a Giolitti e Gentiloni, venivano perciò a confluire il filone risorgimentale legato alla tradizione cavouriana e il filone cattolico largamente maggioritario nel Paese anche se fino ad allora sostanzialmente escluso dalla partecipazione ufficiale alla legislazione e all’amministrazione dello Stato.
È quindi un doppio cognome – quello dell’attuale incaricato premier e dell’uomo che consentì a Giolitti di fermare il trionfo socialista – che tradisce origini nobiliari: Gentiloni Silveri. Un cognome importante nella storia del Paese, non solo per questi due esponenti, ma anche per altri personaggi. Tutti marchigiani, rappresentanti di una famiglia nobile di conti di Filottrano, Cingoli, Macerata e Tolentino, con tanti esponenti distintisi nella vita pubblica. Proveniva dalla stessa famiglia anche Domenico Gentiloni Silverj: guardia nobile del Pontefice, ma anche ammiratore e amico di Vincenzo Gioberti e di Massimo d’Azeglio, nel 1849 aveva aderito alla Repubblica romana. Nel 1857 divenne primo cittadino di Tolentino, passerà alla storia della sua città come l’ultimo sindaco dello Stato pontificio e il primo del nuovo Regno d’Italia, senza soluzione di continuità. Domenico era anche musicista e aveva composto nel 1846 in occasione dell’elezione di Pio IX – un altro marchigiano, Giovanni Maria Mastai Ferretti – l’opera intitolata “ L’Armonia religiosa”, che fu eseguita per la prima messa celebrata dal nuovo Pontefice a San Pietro. L’inno che vi era contenuto fu regolarmente usato in Vaticano nelle occasioni più solenni fino al 1970, quando fu soppresso nell’ambito della riforma della corte pontificia voluta da Paolo VI, per essere in seguito ripristinato nel 2008, per volontà di Benedetto XVI. E, arrivando al Novecento, vengono dalla stessa famiglia il professor Niccolò Gentiloni Silveri, medico di fama internazionale, che raggiunse l’apice della notorietà curando Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli; Filippo Gentiloni Silveri, giornalista specializzato in tematiche religiose e politiche, già sacerdote gesuita, firma del quotidiano Il Manifesto; e infine il capogruppo Ncd alla Regione Marche, Francesco Massi Gentiloni Silveri. Un cognome importante, quindi, e una innegabile e comune matrice cattolica.
Anche Paolo Gentiloni, del resto, riceve un’educazione cattolica e prima dei sedici anni fa anche il catechista assieme ad Agnese Moro. E quando il sindaco di Roma Francesco Rutelli dovette affrontare la decisiva partita del Giubileo, nomina fiduciario e assessore proprio il suo portavoce Gentiloni, che svolge il ruolo di interfaccia con le autorità vaticane. E pur con un’adolescenza e una giovinezza politiche trascorse tra il Movimento studentesco di Mario Capanna e il Pdup, Paolo Gentiloni si rivolge poi all’ambientalismo e sarà – pur tra posizioni laiche, nel senso di non post– democristiane – tra i fondatori della Margherita di Rutelli e, infine, del Pd. D’altronde, a inizio ’ 900 il Patto Gentiloni aveva portato alla fusione tra il filone cattolico e quello laico– risorgimentale, le due componenti che, unite, formarono per un decennio la maggioranza politica e sociale del Paese, prima dell’interventismo e della Grande Guerra che sconvolgeranno poi tutto e cambieranno gli equilibri politici italiani.
Il merito politico di Vincenzo Ottorino Gentiloni Silveri – da presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana – fu storicamente proprio quello di aver consentito il superamento del non expedit di Pio IX, la decisione che dopo Porta Pia impediva ai credenti di partecipare alla politica. Ai primi del secolo scorso, l’avanzare dei socialisti e il grosso peso dei laico– radicali nelle compagini di governo aveva spinto Pio X ( 1909) a promuovere la creazione dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana ( Ueci), un’associazione laicale con il compito di indirizzare i cattolici italiani impegnati nell’agone politico, e a porvi a capo proprio il Conte Gentiloni. D’altra parte, Giolitti, e con lui vari esponenti della classe politica che aveva governato l’Italia nel suo primo cinquantennio di vita, desiderava bloccare l’avanzata che sembrava impetuosa del Partito socialista. L’accordo che andrà sotto il nome, appunto, di Patto Gentiloni, era in sostanza un documento siglato che prevedeva un’intesa su alcune direttrici fondamentali. Nel dettaglio, il patto consisteva in un elenco di sette punti considerati irrinunciabili per ottenere il sostegno degli elettori cattolici, tra i quali la difesa delle garanzie date dagli ordinamenti costituzionali alle libertà di coscienza e di associazione e il diritto di avere una seria istruzione religiosa nelle scuole comunali. Il “ patto” aveva dietro di sé una interpretazione diversa del Risorgimento: ancorarlo – come era stato fatto sino ad allora dalla Destra e dalla Sinistra storiche – all’idea e alla prassi di “ rivoluzione” non poteva portare, secondo i cattolico– liberali, che al rovesciamento del suo intento originario, quello di rivendicazione e riconquista dell’autonomia nazionale. Una lettura che, unendo Gioberti, Manzoni, Cavour e Giolitti, conduceva a una evidente strategia politica antisocialista, antiradicale, antilaicista.
Collegio per collegio, quindi, i cattolici liberali di Gentiloni si impegnarono a eleggere deputati cattolici che avevano sottoscritto l’accordo, mentre i cattolici si dicevano pronti a votare per i candidati liberali che accettavano quegli impegni. E nelle elezioni politiche italiane del 1913 – le prime della storia italiana a suffragio universale maschile – il nuovo partito liberale ottenne uno schiacciante successo. Preoccupati di passare un gran numero di eletti ai socialisti, i giolittiani misero a disposizione davvero una nutrita quantità di seggi per i candidati cattolici. Da parte sua, il Conte Gentiloni fu incaricato di passare al vaglio i candidati liberali, al fine di far confluire i voti dei cattolici su quelli tra loro che promettessero di fare propri i valori affermati dalla dottrina cristiana e, parallelamente, di negare il proprio sostegno a leggi laiciste.
Sia ben chiaro: il “ patto” fu concluso in maniera informale, siglato ma mai reso pubblico. Anzi, Giolitti, di fronte alle accuse di aver “ ceduto” ai cattolici, riferitegli dai liberali della sua maggioranza, ne negò addirittura l’esistenza. I radicali comunque lasciano la maggioranza giolittiana e fra i cattolici, espresse delle riserve don Luigi Sturzo, che si batteva per la creazione di un autonomo partito di cattolici. La Santa Sede comunque appoggiò il Patto: in vista delle elezioni, papa Pio X tolse il non expedit in 330 collegi su 508. E i risultati delle elezioni del 1913 sancirono il grande successo del Patto e rappresentarono il trionfo di Gentiloni: i liberal– cattolici ebbero il 51 per cento dei voti e su 508 seggi ebbero 260 eletti. Di questi, 228 furono gli eletti cattolici che avevano sottoscritto gli accordi del Patto prima delle elezioni. I deputati socialisti ( tra Psi e Socia- listi indipendenti e sindacalisti) videro salire a 58 il numero dei propri eletti, 73 furono i radicali, 34 i cattolici non aderenti al Partito liberale e solo 5 quelli della destra nazionalista.
Ricordiamolo: nell’Italia a sistema elettorale censitario, quella precedente Patto Gentiloni, l’alleato dei giolittiani era il Partito radicale che, con i suoi settanta deputati, aveva appoggiato il terzo e quarto governo Giolitti. Dopo le elezioni del 1913 i radicali passarono all’opposizione e successivamente alla marginalità politica. Dall’anno successivo emergeranno nuove forze politiche – i popolari, i mussoliniani dei fasci di combattimento, i sindacalisti rivoluzionari, i comunisti – che inaspettatamente per i giolittiani faranno rientrare dalla finestra quei fattori di instabilità sventati dal patto siglato da Gentiloni. Il quale, del resto, nel 1916, a soli cinquantuno anni d’età scomparve prematuramente.
Con la solita astuzia della storia, una domanda viene allora spontanea: qualcosa di quelle dinamiche potrebbe forse ripetersi un secolo dopo? Riuscirà, insomma, un altro Gentiloni nell’affermazione di un nuovo “ patto” – questa volta finalizzato alla legge elettorale – in grado di evitare un governo in mano al M5S e ad altre forze populiste?
LUCIANO LANNA