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Forse non resta altro che rassegnarci e scrivere sul tricolore: Italia, riforme mai. Una volta c’era lo stellone che ci proteggeva; tanti facevano finta di non crederci e poi si fregavano le mani. Al suo posto ora c’è una maledizione che perseguita il Paese. Niente da fare, lo spettacolo che è andato in scena a Montecitorio l’altro ieri - penoso nelle forme, insopportabile nei toni, inaccettabile nelle conclusioni - ha confermato ancora una volta l’assioma che attanaglia alla gola come un polipo fino all’asfissia il sistema politico italiano: le riforme non si riescono a fare.
Le aule parlamentari, maggioritarie o proporzionaliste, di Prima, Seconda e magari anche Terza repubblica, non ce la fanno a partorire risultati in grado di ammodernare i meccanismi che regolano le istituzioni e meno che mai sistemi che definiscano il perimetro di regole che devono sovrintendere l’equilibrato svolgersi del confronto tra partiti. E se per caso ce la fanno, salvo spurissime eccezioni, ci pensano i cittadini ad archiviarle a colpi di referendum. La classe politica è incapace di autoriformarsi: è questa la lezione che dobbiamo imparare dalla nostra storia, almeno dal dopoguerra in poi? Se così fosse, sarebbe una davvero triste risultanza.
Perché è evidente che un Paese che non sa fare le riforme che servono, che non è capace di guardarsi allo specchio e correggere i difetti che vede, è un Paese non più solo destinato al declino: ha perso e basta.
Se volgiamo lo sguardo indietro, c’è da restare basiti.
Da quel 17 settembre 1963, quando il capo dello Stato Antonio Segni inviò un messaggio alle Camere per suggerire di cambiare la Costituzione e impedire la rielezione dei Presidenti della Repubblica, tanta acqua è passata. Inutilmente. Alla fine dirgli anni ‘ 70 fu Bettino Craxi ad avere la lungimiranza di reclamare una Grande Riforma per oliare le rotelle del funzionamento dello Stato: sappiamo com’è finita. Nel 1983 fu istituita la prima Commissione parlamentare per le riforme e a guidarla fu chiamato Aldo Bozzi: nulla di fatto. Seguirono altre Commissioni con lo stesso compito, guidate da Ciriaco De Mita e Nilde Iotti. Un liberale, un democristiano, una comunista: le migliori scuole politiche del Paese.
Finite al macero. E poi la più famosa di tutte: la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Arrivò fino all’ultimo miglio, poi le lotte intestine tra partiti la fecero diventare «una carrozza con le ruote quadrate», come la definì un altro capo di Stato, Francesco Cossiga. O «la figlia dei ricatti», come gentilmente la bolló Gherardo Colombo.
Berlusconi, vantandosene, diede il colpo di grazia.
Eppure riforme importanti, anzi importantissime, ci sono state. Ma quasi sempre sono risultate il frutto di spallate esterne al Parlamento. Come il divorzio del 1974. Oppure il passaggio dal proporzionale al maggioritario avvenuto sotto la mannaia di Mani Pulite che annientò un intero sistema politico fondato sui partiti figli del dopoguerra. E poi ci sono state revisioni costituzionali effettivamente licenziate dalla Camere. Come l’abolizione dell’autorizzazione a procedere. Oppure la modifica dell’articolo 117 per assegnare compiti legislativi alle Regioni. Effettivamente non due casi entusiasmanti.
Addirittura la riforma preparata da Matteo Renzi e sonoramente cassata dagli italiani il 4 dicembre scorso, prevedeva la sostanziale cancellazione di quella modifica costituzionale, peraltro varata da una maggioranza di centrosinistra.
Non riusciamo a fare le riforme, e quando le facciamo risultano peggiorative: un disastro.
Quanto alle leggi elettorali non si può non ricordare il precedente della cosiddetta legge truffa: approvata, non accolta dagli elettori e rimessa in un cassetto. Oppure il referendum ( di nuovo!) che doveva abolire la quota proporzionale del Mattarellum: pure qui niente di fatto perché non si raggiunse il quorum.
Perché questo morbo, cosa attiva e rende invincibile questa sorta di bulimico bacillo di inconcludenza che inesorabilmente entra in circolo e impedisce portare al traguardo sforzi che peraltro in tanti sostengono necessari, anzi indispensabili? È solo la solita ipocrisia politica italiana, il gattopardesco comandamento che ci rende refrattari ai cambiamenti?
Difficile da dire. Certo è indiscutibile che ogni volta che una leadership politica, di qualunque colore, punta a cambiare le regole del gioco anche quelle, come detto, più vetuste e generalmente reclamate di modifica immediatamente scatta il reticolo di poteri e rendite di posizione che nei meandri di un sistema malfunzionante si annida e prospera, e che alla fine blocca tutto. Come pure è assodato che chi brandisce l’arma delle riforme molto spesso non ha a cuore l’interesse generale bensì quello proprio. Fatto sta che immaginare di rincorrere gli altri Paesi europei e i più avanzati con questa specie di palla al piede, di zavorra di inanitá, di fardello di incapacità non è sbagliato: è velleitario. Eppure di uno scatto in avanti l’Italia ha disparato bisogno. Come di una classe dirigente, non solo politica, all’altezza delle sfide in atto. Sembrano miraggi.
Invece sono necessità.