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La condanna dell’avvocata iraniana e attivista per i diritti umani Nasrin Sotoudeh a 33 anni e sei mesi di carcere e a 148 frustate, irrogata dal Tribunale di Teheran nel marzo scorso, è diventata definitiva per non avere lei, che è detenuta dalla primavera scorsa, voluto interporre appello. Le imputazioni che hanno portato alla condanna sono “reati contro la sicurezza nazionale”, variamente articolati, fino ad “incitazione alla prostituzione” per avere difeso donne che avevano osato mostrarsi senza lo hijab, il velo che deve coprire sempre in pubblico la testa delle donne. Tutte le imputazioni sono strettamente connesse alla sua strenua difesa dei diritti umani: proprio per questa sua attività aveva già subìto una pesante condanna a 11 anni nel 2010, cui erano seguiti tre anni di carcerazione, e nel 2012 aveva ricevuto il premio Sakharov per la Libertà di Pensiero.
Sotoudeh, che è stata anche allieva e collaboratrice del Premio Nobel per la Pace nel 2003, prima giudice e poi avvocata iraniana Shirin Ebadi, aveva sempre difeso gli oppositori politici e culturali degli ayatollah e comunque personaggi scomodi per il regime, in nome della libertà di pensiero e di ogni libertà, compreso quella di portare oppure no lo hijab: lei stessa in alcune foto lo porta e in altre no. Questo suo schierarsi sempre con ogni diritto di libertà e contro ogni sopruso ha fatto sì che oggi, su imputazioni schiettamente politiche per reati di opinione, a lei sia stata irrogata una pesantissima pena: sostanzialmente, una volta ancora, si identifica il difensore con il suo assistito, e laddove non sopperiscono leggi antiterrorismo si invoca la generica sicurezza nazionale. C’è piuttosto da chiedersi come mai Sotoudeh abbia deciso, proprio lei che è espertissima avvocata, di non affrontare il secondo grado di giudizio e di mandare definitiva la sentenza di condanna di primo grado. La sfiducia nell’istituzione giudiziaria iraniana deve essere veramente radicata e forte se non si è inteso percorrere l’intero iter giudiziario consentito. È il gesto di chi evidentemente e consapevolmente ha inteso rivendicare con radicalità il proprio ruolo di difensore dei diritti e delle libertà, preferendo la carcerazione e il porre la questione sul piano politico nazionale e internazionale piuttosto che un appello che avrebbe accreditato la legittimità della condanna senza alcuna speranza di riuscita. È lecito ritenere che tutta la vicenda giudiziaria di Satoudeh evidenzi il perverso intrecciarsi in Iran della giustizia civile con i principi della giustizia coranica, sia nell’andamento processuale che nell’esecuzione della pena, si pensi alle 148 frustate.
Il caso Sotoudeh è stato fatto proprio da Amnesty International che ha lanciato un appello già sottoscritto da un milione di persone e dal Progetto Endangered Lawyers/ Avvocati Minacciati dell’Unione Camere Penali e dal Consiglio Nazionale Forense qui in Italia.
* Osservatore Internazionale per l’Ucpi