PHOTO
La fisica interpreta la realtà solo come realtà fisica, e quando si scontra con qualcosa che non è e non si può concepire come fisico, quale la coscienza, si blocca. Il grande, confessato desiderio del genetista e letterato Edoardo Boncinelli, nella cui bilancia il piatto della scienza scende a precipizio, facendo schizzare in alto quello della filosofia, è di capire che cos’è la coscienza.
Ma questo desiderio, che non è solo suo bensì anche dei neuroscienziati, che cercano di ricavarla, la coscienza, dal cervello, è destinato a rimanere insoddisfatto. I neuroscienziati, infatti, annaspano miseramente nei loro tentativi di capire e stabilire in che modo il cervello produce la coscienza e che cosa questa è veramente. Alla loro presunzione che tutto sia riducibile alla materialità, si potrebbe contrapporre quella di altri che tutto sia immaterialità, spiritualità. Ma anche questa sarebbe sbagliata, perché, come la materia si riduce, secondo la famosa equazione einsteiniana del 1905 E= mc2, all’energia, così l’energia, secondo Max Planck, si riduce a elementi minimi indivisibili, i famosi “quanti”.
La soluzione viene dai filosofi Cartesio e Spinoza, che hanno concepito binariamente la realtà come res extensa, materia, e come res cogitans, pensiero. Ma tra i due, il merito di questa soluzione spetta in realtà solo a Spinoza, perché la divisione della realtà nelle due diverse res operata da Cartesio, da lui giustificata con la maggiore agevolezza dell’analisi scientifica dei corpi se separati dal pensiero ( dunque in lui lo scienziato strumentalizzava la filosofia), ebbe come conseguenza che non si potesse più riunificare quello che era stato artificiosamente diviso, neanche con l’estremo, balzano ricorso alla ghiandola pineale, in cui si sarebbero dovute riunificare le due res, sicchè alla fine egli non potette, per risolvere il problema e credere nella realtà del mondo esterno, che affidarsi a Dio, incapace, nella sua bontà di ingannarci, così come un avvocato senza più argomenti si affida alla clemenza del giudice. Ma in tal modo decretò il suicidio della filosofia.
Spinoza, invece, riunì le due res nella sostanza, identificandole e distinguendole ( non dividendole) come due degli infiniti attributi di essa, che corrono paralleli senza incontrarsi mai, sicché l’ordine e la connessione delle cose sono identici all’ordine e alla connessione delle idee ( ordo et connexio rerum idem est ac ordo et connexio idearum) Ma se res extensa e res cogitans sono la stessa cosa, l’una non può produrre l’altra, ( cioè il cervello la coscienza), come credono i neuroscienziati né l’altra può produrre l’una ( cioè l’Io la realtà), come credono gli idealisti. Ora, è più facile opporsi agli idealisti, i quali distinguono le due res, che non ai neuroscienziati e in genere ai fisici, che credono all’esistenza di una sola delle due, per cui l’altra non può che essere prodotta da quell’una, la materia. Ma così essi non possono che rompersi la testa, almanaccare, arzigogolare, spasimare e sperare in una futura illuminazione, scoperta o folgorazione, che non potrà esserci.
Intendiamoci, non è che tutto non venga dalla natura; il mio motto è: nihil nisi ex natura: non c’è niente che non venga dalla natura. Ma la natura di Spinoza, che faccio mia, “non è quella falsamente concepita e atomistica di Democrito e dei posteriori materialisti francesi, che non ha se non proprietà meccaniche; bensì quella che è concepita giustamente come fornita di tutte le sue qualità non spiegabili” ( scilicet: svettanti anche in tutte le forme della spiritualità), come dice, nei Parerga e paralipomena, “Frammenti di storia della filosofia”, Schopenhauer.
In questa stessa direzione, ma in senso opposto, è da concepire la coscienza anche secondo il buddhismo. Buddha afferma: “Se un uomo dicesse: io mostrerò l’andare, il venire e lo svanire, la nascita, la crescita, l’incremento o lo sviluppo della coscienza indipendentemente dalla materia, dalla sensazione, dalla percezione e dalle formazioni mentali, egli parlerebbe di qualcosa che non esiste” ( Walpola Raula, L’insegnamento del Buddha, Milano 2019, p. 52). Già per Buddha, dunque, come poi per Spinoza, mente e materia non sono divise, ma solo distinte. Senonché il Buddha considera la mente addirittura come un sesto organo di senso: “La differenza tra l’occhio e la mente è che il primo percepisce il mondo dei colori e delle forme visibili, mentre la seconda percepisce il mondo delle idee, dei pensieri e degli oggetti mentali, che fanno anch’essi parte del mondo” ( ib., p. 47). Cioè Spinoza tiene le due res distinte e separate, Budda le unisce e le mescola.
Nel tempo della digitalizzazione, il problema si presenta anche per il computer. “Fare una macchina a somiglianza d’uomo è sempre stato il sogno dell’umanità” dice Federico Faggin, fisico, inventore e imprenditore, già capo del progetto dell’intel 4004 e responsabile dello sviluppo dei microprocessori 8008, 4040 e 8080, al livello di Steve Jobs – a cui disse di no. Ha appena pubblicato Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza). “Sarà possibile fare un computer consapevole?”, cioè con la coscienza? Gli domanda Debora Rosciani ( Il Sole 24 ore, 5 gennaio 2020). E lui: “Il computer può solo meccanizzare, fare cose che sono meccaniche per noi e imitare gli aspetti mentali meccanici . Ma come misuriamo le emozioni? Quanto è il mio amore per qualcosa o il mio odio per qualcuno? E che cos’è la creatività, che esce dal pensiero razionale? Questo parte da presupposti logici accettati senza prova. Poi fa un ragionamento secondo logica e arriva a conclusioni. Ma i presupposti sono basati sulla comprensione, che è ciò che assicura che un assioma o un postulato sia più valido di un altro, senza poterlo provare: una capacità umana che va al di là della macchina”. Siamo di nuovo a Spinoza, per il quale non c’è un metodo per arrivare alla verità: quello che decide è il normale potere di conoscere dell’individuo, l’intelligenza. Il vero sorge in contrasto col falso ed è criterio di sé e del falso, come la luce è criterio di sé e delle tenebre.
Col computer, se gli si vuole attribuire la coscienza, afferma Faggin, “non si sa neanche da dove cominciare; la macchina è fatta solo di simboli e segnali elettrici, che producono altri segnali. Siamo noi a dare significato ai simboli della macchina. Ma la macchina non sa di sapere e di non sapere”. Con lui ci sono Christof Koch e Francis Crick, scopritore ( con James Watson) del Dna, che hanno lavorato molto alla ricerca della coscienza come pura materialità. Koch è oggi capo dell’Allen Institute for Brain Science di Seattle ( è uno dei due fondatori di Microsoft). Nel suo recente libro The Feeling of Life Itself ( Il sentimento della vita stessa), Koch conclude che la coscienza è irriducibile e che il computer non l’avrà mai. “È quello che è successo a me”, dice Faggin, “dopo 20 anni di studio pensando che la coscienza fosse una proprietà della materia, sono arrivato alla conclusione che non lo è”.
Per spiegare la coscienza “bisogna rivedere tutti i presupposti della scienza materialista”. Schopenhauer, che ha contribuito a importare in Europa il pensiero orientale e che ha modellato la sua etica su quella buddhistica della rinuncia alla volontà di vivere per attingere il nirvana, si schiera però, sulla coscienza, contro Buddha, per il quale non c’è un Io, un sé o qualcosa di permanente; c’è un pensiero senza il pensatore, un’arte senza l’artista, una sofferenza senza il sofferente, un’azione senza l’attore, un movimento senza un motore immobile. Esiste solo il flusso di tutte le cose ( insomma, “penso, dunque NON sono”). Schopenhauer invece afferma decisamente l’Io, “che tutto conosce e da nessuno è conosciuto” come la vita stessa, che nessuno potrà mai capire.