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L’anniversario è “scivolato” tra l’indifferenza dei più. Guido Ceronetti, poeta e saggista, caustico giornalista e teatrante raffinato, traduttore di testi latini e greci, ostici testi ebraici, rielaborati con grande sapienza, un anno fa se n’è andato. In punta di piedi è “volato” nel Parnaso dei Grandi. Da qualche tempo i suoi interventi si erano fatti via via rarefatti; stoltamente i giornali apparivano come annoiati dei suoi scritti; e accadeva si ascoltare i suoi “messaggi in bottiglia” sempre più affaticati e rochi, dai microfoni benevoli della Radio Radicale.
Negli ultimi anni mi è accaduto di frequentarlo; ne parlo non da critico, ma da estimatore che la sorte ha messo in condizione di riferire situazioni che forse aiutano a una comprensione di una persona indubbiamente complessa e problematica, innocente come un bambino, sapiente come un patriarca biblico. C’è stato un tempo i cui non era facile poter parlare e apprezzare liberamente un personaggio come Ceronetti: prima di approdare all’Einaudi o all’Adelphi, o alla raffinata Tallone, pubblicava da Rusconi, un editore vieto e vietato, un quasi fascista da evitare come la peste nera… E dire che Ceronetti era persona mitissima: non solo d’aspetto, ma d’animo: ammiratore di Marco Pannella, una grande simpatia per il Partito Radicale, al punto di aver partecipato a qualche suo congresso a Chianciano, e prender la parola: “Da non politico che di politica poco capisce e sa”, aveva specificato; e naturalmente il suo era stato uno degli interventi più politici di quell’assise. Valga un suo scritto di trent’anni fa, sul mensile “Azione Nonviolenta” per un fascicolo monografico dedicato ad Aldo Capitini. Un testo significativo, chiarisce molto bene chi era Ceronetti al di là dello stereotipo.
“Devo ad Aldo Capitini di essere diventato vegetariano. Niente altro, ma non è poco. Mi sembra di averne parlato con lui una sola volta, e per lettera. Sapendolo vegetariano, mi attirò il suo esempio: “Che cos’è questo vegetarismo? Perché Capitini non mangia carne?”- Cominciai ad astenermi per prova, gradualmente, riflettendoci, contento della novità. Se si cessa per un certo periodo di mangiare carne, quando c’è l’abitudine, pensando un poco a quel che è il Mattatoio, luogo di esecuzione permanente, ininterrottamente in attività, in tutte le città, in tutti i luoghi abitati, e a carnivorismo, onnivorismo, servitù e torture del mondo animale, igiene, dieta, compassione, liberazione interiore, il saldo è fatto: eccoci fuori senza troppo sforzo dalla gabbia comune, dove si mangia carne obbligatoriamente e passivamente, dove si è tutti uguali nella necrofagia. Capitini mi ha fatto pensare a queste cose, indicandomele appena. Non ho neppure memoria di suoi scritti sull’argomento che mi abbiano persuaso. Adesso anche mia moglie è vegetariana e nessun ospite in casa nostra è mai apparso scontento di non trovarci un piatto di carne ( può darsi che qualcuno lo sia stato, ma con quanta bravura avrà dissimulato la sua insoddisfazione!). Sono grato a Capitini di questo insegnamento. Educando al vegetarianismo ha, paradossalmente per lui, ugualitarista e ultademocratico, fatto spuntare qua e là del raro e dell’insolito, per la nostra società carnivorissima. Perché il vegetarianismo separa dal volgare e s’innesta su modi aristocratici di pensiero, o li suggerisce. “Grazie a Dio non sono carnivoro come quelli là”. Tra la pasta e fagioli e il broccolo bollito ecco alzare la testa dell’eresia capitiniana, la cultura di élite”.
Ora si legga la “Ballata dell’angelo ferito” del dicembre 2008, che si ispira alla vicenda di Eluana Englaro: “Urlate urlate urlate urlate. / Non voglio lacrime. Urlate. / Idolo e vittima di opachi riti / Nutrita a forza in corpo che giace / Io Eluana grido per non darvi pace / Diciassette di coma che m'impietra / Gli anni di stupro mio che non ha fine. / Una marea di sangue repentina / Angelica mi venne e fu menzogna. / Resto attaccata alla loro vergogna / Ero troppo felice? Mi ha ghermita / Triste fato una notte e non inita. / Gloria a te Medicina che mi hai rinata / Da naso a stomaco una sonda ficcata / Priva di morte e orfana di vita / Ho bussato alla porta del Gran Prete / Benedetto: Santità fammi morire! / Il papa è immerso in teologica fumata / Mi ha detto da una finestra un Cardinale / Bevi il tuo calice finché sia secco / Ti saluta Sua Santità con tanto affetto / Ho bussato alla porta del Dalai Lama. / Tu il Riverito dai gioghi tibetani / Tu che il male conosci e l'oppressura / Accendimi Nirvana e i tubi oscura / Ma gli occhi abbassa muto il Dalai Lama / Ho bussato alla porta del Tribunale / E il Giudice mi ha detto sei prosciolta / La legge oggi ti libera ma tu domani / Andrai tra di altri giudici le mani. / Iniquità che predichi io gemo senza gola / Bandiera persa qui nel gelo sola / Ho bussato alla porta del Signore / Se tu ci sei e vedi non mi abbandonare / Chiamami in cielo o dove mai ti pare / Soffia questa candela d'innocente / Ma il Signore non dice e non fa niente / Ho bussato alla porta del padre mio / Lui sì risponde! Figlia ti so capire / Dolcissimo io vorrei darti morire / Ma c'è una bieca Italia di congiura / Che mi sentenzia che non è natura / E il mio papà piangeva da fontana / Me tra ganasce di sorte puttana. / Cittadini, di tanta inferta offesa / Venga alla vostra bocca il sale amaro. / Pensate a me Eluana Englaro”.
Ecco. Modestamente questo è il “mio” Ceronetti. E forse si capisce anche perché si tende a dimenticarlo, a scolorarne la memoria.