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Quando muore un avvocato, soprattutto un avvocato famoso, come era famoso Titta Madia, sulla stampa si citano per prima cosa i nomi di coloro che quell’avvocato ha assistito. Non tanto i processi che quell’avvocato, nel corso della sua vita professionale, ha affrontato, o le questioni importanti che ha discusso nei tribunali.
Neppure i temi che ha posto all’ordine del giorno dell’avvocatura. Si citano i nomi dei suoi assistiti, solo quelli famosi, però. Così è stato ieri per Titta, ricordato per aver patrocinato Curcio, Pollari, Mastella in passato, Incalza e Tulliani oggi.
Va così per gli avvocati: il loro nome si colora di luce riflessa a seconda della notorietà delle cause che li hanno portati alla ribalta, e non è solo una questione legata alle regole della informazione. Quasi mai, infatti, si ricordano i processi, quelli in cui magari quell’avvocato ha dato il meglio di sé solo che lo ha fatto assistendo un presunto rapinatore o un presunto assassino dal nome anonimo.
Sarebbe bello che nei giorni in cui la sua morte improvvisa, che ha lasciato i suoi amici increduli prima ancora che addolorati perché Madia era l’emblema stesso della voglia di vivere e di vivere bene - si affacciassero sul proscenio i mille volti anonimi delle persone semplici che hanno varcato le soglie del suo studio per essere assistite con lo stesso scru- polo e la stessa determinazione che riservava a quelli destinati, per nome e posizione, a stare sotto le luci della ribalta.
Questo perché dietro un avvocato come Titta c’era qualcosa di più e diverso che non, solo, la sua fortuna professionale. Intanto c’era una destino che stava scritto nella storia della sua famiglia, del nonno, chiamato Titta anche lui, avvocato e deputato prima del Regno e poi della Repubblica, e del padre, Nicola, uno di quelli che aveva reso grande il foro romano nel dopoguerra. Poi c’era l’idea, che riusciva persino a traversare le idee politiche, dell’avvocatura come portatrice di valori, di stampo liberale si direbbe oggi, che ne fanno una professione diversa dall’altre perché esprime una cultura, quella dei diritti, autonoma e trasversale.
Per questo Titta continuava ad editare la rivista che il nonno aveva fondato, Gli Oratori del Giorno, facendo sopravvivere una tradizione che vuole l’avvocatura immersa nel dibattito intellettuale anche in tempi come questi, in cui il binomio avvocatura/ cultura risulta piuttosto in crisi.
Sulle pagine di carta ruvida degli Oratori , Titta metteva temi di schietto stampo giudiziario accanto ad incursioni sui più diversi argomenti di attualità, e la veste antica della rivista, che quelli come me divenuti avvocati negli anni ottanta guardavano inizialmente con il sorriso smagato di chi si imbatte nel reperto forense di un tempo sorpassato, non rifletteva affatto le idee moderne del suo direttore. Titta, infatti, non era un nostalgico dei bei tempi andati dell’avvocatura, anzi giocava a provocare il suo ambiente professionale scandalizzandolo. E lo faceva perché lo conosceva bene il mondo degli avvocati, per via della tradizione familiare ed anche perché ne aveva compreso miserie e nobiltà nei molti anni in cui aveva rivestito la carica di consigliere dell’Ordine a Roma. Tanto gli piaceva rimarcare la sua diversità, rispetto ai cliché, che proprio sulla sua rivista ospitò il dibattito sull’Avvocato e la Verità, titolo di un libro di Ettore Randazzo che raccontava di come, nel sapere autonomo dei penalisti, il concetto e la rappresentazione della Verità assumano connotazioni relative e autonome. Di quel dibattito, su posizioni opposte, Titta ed Ettore divennero protagonisti, animando decine di convegni in giro per l’Italia, in cui Madia argomentava che lo strappo che il codice del 1989 aveva prodotto nell’ordinamento doveva riflettersi anche nella stessa funzione dell’avvocato. Un avvocato moderno, quello dell’accusatorio, che non poteva nascondersi dietro allo strapotere della funzione avversa ma confrontarsi con una ruolo ed una deontologia diversa tanto che, concludeva, “nel processo accusatorio, ove le parti si contrappongono in regime di parità, si dubita che il difensore possa contribuire alla formazione della prova conoscendo la falsità della tesi che si propone di sostenere”. Randazzo ribatteva ed argomentava che, pur nella diversità delle vesti e dei poteri di iniziativa, restava il diritto/ dovere dell’avvocato di difendere senza mai ergersi a giudice del proprio assistito. Un bel dibattito, quello, ripetuto in mille occasioni su tutte le piazze avvocatesche. “Siamo diventati una compagnia di giro” commentava disincantato Titta, ad ogni nuovo invito, cui però era felice di aderire. A pensarci oggi, nell’anno in cui sono scomparsi entrambi, Ettore e Titta, sembra un secolo fa, un tempo in cui l’avvocatura si accalorava su temi un po’ diversi da tabelle e preventivi. Erano i primi anni duemila, invece. Infine, Madia era un borghese innovatore, che onorava la sua professione ma che ancor di più amava la vita, i giorni al circolo e Parigi dove scappava appena poteva. Ci mancherà anche per questo.