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Il 9 maggio 1996 si apre la XIII legislatura. E, come deputato di Alleanza nazionale, faccio il mio ingresso nell’aula di Montecitorio. Che, fino ad allora, avevo visto dall’alto delle tribune stampa. Deputato per caso. Fini si fa portare l’elenco dei costituzionalisti. E, pigro com’è, si ferma alla lettera A. A come Armaroli. Mi siedo al posto che mi è stato assegnato. Alla mia sinistra c’è Tonino Mazzocchi, un romano pieno di brio. Alla mia destra c’è Gian Franco Anedda, un personaggio fuori dal comune che ho scoperto poco alla volta.
E già, perché come il buon vino Gian Franco si assaporava a poco a poco.
Era talmente riservato da passare quasi inosservato. Ma poi non finiva mai di stupire. Per cominciare, un gran signore che metteva a proprio agio chiunque, anche le persone più umili. Un uomo di una generosità senza limiti, di raffinata cultura e d’impagabile ironia. Era un piacere ascoltarlo. E si doveva prestare la massima attenzione perché diceva ogni cosa con quella sua vocina pacata che ti faceva riflettere. Per cinque anni rinchiuso nelle segrete di Montecitorio, mi è stato di conforto avere per amico un uomo come l’onorevole Anedda, come l’avvocato Anedda.
Un finissimo avvocato penalista che al lessico teatrale preferiva la ferrea logica delle argomentazioni.
Sempre assieme. In commissione Affari costituzionali, egregiamente presieduta da Rosetta Jervolino, dove indegnamente ero il capogruppo e Anedda era il collega al quale mi rivolgevo per avere lumi su questioni ingarbugliate. In aula, dove commentavamo lo svolgimento delle sedute e il comportamento del presidente Luciano Violante, del quale mi atteggiavo ad angelo custode al fine di contrastare i suoi cattivi pensieri.
Ma, tutto sommato, è stato un buon presidente. Anche se ha fatto rivoltare nella tomba un giurista del calibro di Vezio Crisafulli, un Maestro in tema di fonti del diritto. Perché, modestia a parte, Violante a volte si credeva lui stesso fonte del diritto. Tant’è che all’occorrenza se ne inventava una che non stava scritta da nessuna parte. E dopo le fatiche parlamentari con Gianfranco andavamo spesso a cena assieme davanti a un buon piatto di pesce, del quale entrambi ghiotti.
Grazie a Dio, non mi è mai mancata la parlantina. Eppure preferivo che la sera parlasse lui, che con quel suo lessico misurato distillava pillole di saggezza e d’ironia. Non parlava mai male di nessuno, da quell’uomo profondamente buono che era.
Ma nessuno come lui sapeva scorticare con levità gli idola fori e gli idola tribus. Da quell’uomo libero che era, detestava il politicamente corretto. Corbellava coloro che si sentivano intellettuali perché leggevano il Corriere della Sera. E gli sarà dispiaciuto di essere stato preceduto nella scomparsa da Alfredo Biondi, il guardasigilli al quale, lui sottosegretario, voleva molto bene e sovente lo consigliava per il meglio. Da avvocato ad avvocato.
Deputato per quattro legislatura, capogruppo di An per qualche tempo, componente del Consiglio superiore della magistratura, non ci siamo mai persi di vista. Ci sentivamo spesso e quest’Italia, di anno in anno, ci piaceva sempre meno. E un Italiano come lui ne soffriva. Carissimo Gian Franco, ci manca la tua intelligenza, la tua onestà, la tua competenza di persona perbene.
Di uomo e galantuomo. Di deputato che ha lasciato il segno e di illustre avvocato fine interprete dell’ordinamento giuridico. Resta il tuo esempio, guida luminosa per chi ti ha voluto bene.