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La decisione della presidente Casellati di riunire il Senato ieri è stata saggia sotto il profilo politico e inappuntabile sotto il profilo procedurale. Saggia, perché con uno stato di pre- crisi come l’attuale non c’è tempo da perdere. Occorre uscire quanto prima dal provvisorio. Che poi è la medesima preoccupazione del presidente Mattarella. Inappuntabile, perché è vero che la disposizione del regolamento del Senato prevede che tra convocazione e riunione dell’assemblea occorra un lasso di tempo di almeno cinque giorni. Ma di norma, come ha ricordato con una onestà intellettuale della quale bisogna dargli atto Stefano Ceccanti, un esperto costituzionalista prima ancora che un valente deputato del Pd, ogni regola, si sa, ha la sua brava eccezione. Perciò il fatto che l’assemblea del Senato si sia riunita ieri dopo la conferenza dei capigruppo di ieri l’altro è perfettamente comprensibile.
Piuttosto desta stupore che il fronte antisalviniano, chiamiamolo pure così, abbia protestato per una riunione così ravvicinata. Temeva forse che i suoi senatori se ne restassero al mare o ai monti o, peggio, in qualche sperduto atollo? Una preoccupazione assolutamente infondata con il senno di poi.
Del resto, ai telegrammi istituzionali che fanno tanto Ottocento, si sono aggiunte le diavolerie elettroniche dei giorni nostri. Grazie alle quali tutti sono raggiungibili in tempo reale. Per non parlare della benemerita Batteria del Viminale, in grado di mettere in contatto tutti con tutti. E allora il sospetto è che si sia fatto un po’ di vittimismo per nascondere la cattiva coscienza di sentirsi Paese legale in contrapposizione a un Paese reale che gli si è rivoltato contro.
Comunque sia, il primo round se lo sono aggiudicato gli antisalviniani. Hanno ottenuto che il Senato si riunisse con tutta calma, il 20 agosto, anziché prima di Ferragosto. E il giorno 20 la partita si aprirà con le comunicazioni del presidente del Consiglio e non con la mozione di sfiducia presentata dalla Lega un po’ avventatamente.
Difatti – con i ministri leghisti bellamente in carica, a cominciare da Matteo Salvini – si è verificato il paradosso di un partito che spara contro i suoi ministri.
Una riedizione del cinematografico Kramer contro Kramer. Ma qual è la differenza tra comunicazioni di Conte e mozione di sfiducia? Con la prima Conte intende sparare in apertura alzo zero contro Salvini. Ne ha subite tante, il presidente del Consiglio, e adesso prepara la sua vendetta. A nome e per conto, si presume, del fronte antisalviniano.
Ecco che spunta ancora una volta l’ombra del diabolico Andreotti. Con la mozione di sfiducia, invece, la Lega voleva mettere subito sotto processo il presidente del Consiglio pro tempore allo scopo di farlo uscire di scena al più presto. E allora le cose andranno così. In primis, Conte dirà la sua. Senza fare sconti all’ex alleato. Dopo di che ogni gruppo dirà come la vede. E c’è da scommettere che sarà un bel vedere. Uno spettacolo imperdibile. Ma non si arriverà a un voto di sfiducia. Perché Conte, preso atto dell’andamento del dibattito, si recherà al Quirinale. Per rassegnare le dimissioni? Forse che sì, forse che no, per dirla con il divino Ariel, al secolo Gabriele d’Annunzio.
Magari fiducioso, Conte, che alle quaresime seguano le resurrezioni.
Dopo un Andreotti ci voleva un Fanfani doc, non vi pare? Ci toccherà, dunque, un Conte- bis tra capo e collo? Chissà. E poi, per fare che cosa? È un legittimo quesito che tra di qui a poco dovrà porsi Sergio Mattarella. La cui funzione pedagogica, come gli esami per Eduardo, non finirà mai. Per nostra buona sorte.