PHOTO
Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia
La carcerazione disposta nei confronti dell’ex Governatore Roberto Formigoni, a seguito della condanna definitiva per corruzione, ha riacceso il dibattito sulle forzature introdotte nel nostro sistema giuridico dalla legge 9 gennaio 2019 n. 3 recante “misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione ed in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, meglio nota come “legge spazzacorrotti”. Roberto Formigoni – pur avendo superato i 70 anni di età – non ha potuto fruire ( come avrebbe invece potuto sino a poche settimane fa) del regime di detenzione domiciliare previsto dalle norme sull’ordinamento penitenziario, a causa del fatto che la predetta legge, operando una sorta di inedita equiparazione tra delitti contro la Pa e delitti di criminalità organizzata, ha precluso anche ai condannati per corruzione, con efficacia immediata, l’accesso ai benefici penitenziari.
Un’osservazione non ideologica della realtà consente di comprendere piuttosto agevolmente come la corruzione – fenomeno grave, beninteso - non rappresenti, tuttavia, quella piaga sistemica della quale i compilatori della legge vorrebbero convincerci. Secondo una recente indagine Eurispes, l’ 85% del campione intervistato, pur convinto che nel nostro Paese il livello del malaffare sia elevato, dichiara di non avere mai vissuto sulla propria pelle o su quella dei propri familiari episodi di corruzione. Ma l’opinabilità dell’approccio manifestato dalla “legge spazzacorrotti” non è solo in questo. Ciò che colpisce dell’intervento normativo è soprattutto il marcato contrasto con quei principi costituzionali che rappresentano in ogni ordinamento democratico il limite alla discrezionalità del legislatore nelle scelte di politica criminale. Qualche breve osservazione può svolgersi con riferimento a quello che parrebbe essere il profilo di incostituzionalità di maggiore peso: il contrasto delle norme della “spazzacorrotti” con il principio di uguaglianza e ragionevolezza ( art. 3 Cost.) e la violazione del principio della irrinunciabile funzione rieducativa della pena ( art. 27, 3 co. Cost.). In breve: l’articolo 1, comma 6 della legge in questione ha inserito la fattispecie di corruzione nel novero dei reati “ostativi” alla sospensione dell’ordine di carcerazione ed alla concessione dei benefici penitenziari, estendendo ai condannati per tale reato quella peculiare presunzione di pericolosità che il legislatore aveva già previsto per i condannati per reati di mafia e di criminalità organizzata. Ora, ciò che rende una simile opzione legislativa confliggente con i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza – e con il principio di cui all’art. 27, terzo comma della Costituzione, comportando un’ingiustificata preclusione all’accesso alle misure non detentive atte a compiere la finalità rieducativa della pena - sta nel fatto che quella presunzione di massima pericolosità che equipara i condannati per corruzione ai condannati per reati di mafia non pare basata su evidenze empiriche che giustifichino, per fenomeni strutturalmente diversi, il medesimo rigore e le medesime limitazioni alla libertà personale. Del resto, è la Corte Costituzionale a ricordare – nella sentenza 265 del 2010 - che “le presunzioni legali, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie o irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”. Non vi è dubbio che il Giudice delle Leggi avrà molto di cui occuparsi nei prossimi mesi.
* Avvocato