La notizia diffusa in prima pagina sul settimanale Giallo secondo la quale il cittadino Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio in danno di Yara Gambirasio, sarebbe “schiavo del sesso” per aver scritto lettere porno ad una detenuta, lettere che secondo l’accusa costituirebbero un’ulteriore prova della sua colpevolezza, rappresenta l’ennesima riprova della deriva mediatico-giudiziaria che sta finendo per sgretolare i principi di civiltà giuridica del nostro Paese.Tali affermazioni sono davvero raccapriccianti, ma ancora più raccapricciante è la notizia che le lettere in questione siano state addirittura acquisite agli atti processuali dalla Corte d’Assise di Bergamo, chiamata a giudicare in ordine alla colpevolezza o meno del Cittadino Massimo Bossetti, imputato in attesa di giudizio e dunque presuntivamente non colpevole ex art. 27 Costituzione.Il tutto, in spregio ai più elementari principi costituzionali, tra i quali rientra quello di cui all’art. 15 Cost., secondo il quale, la libertà e la segretezza della corrispondenza, così come di ogni altra forma di comunicazione, sono inviolabili e la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge, tenendo doverosamente presente, nel caso di specie, che non basta essere detenuti in attesa di giudizio per essere privati tout court di tale diritto.In ordine alla vicenda si fa davvero fatica a comprende quale valore probatorio possano rappresentare tali lettere, relative non già a dati utili ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, bensì inerenti argomenti costituenti dati “sensibili” ed inviolabili, quali sono quelli attinenti alle preferenze sessuali, sui quali è inibito ogni accertamento proprio in forza dei richiamati principi costituzionali, posti a base del nostro Codice della Privacy.Sull’onda dell’emozione e col totale torpore della ragione sono stati neutralizzati i canoni fondamentali su cui si fondano il nostro diritto penale e la nostra procedura penale, finendo per fare strame del principio in base al quale la responsabilità penale riguarda esclusivamente l’accertamento del fatto, essendo espressamente vietato dal nostro codice di procedura penale all’art. 220, di fondare l’accertamento della responsabilità penale sul carattere e la personalità dell’imputato e, in genere, sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.In totale violazione di tale divieto si assiste sempre più sovente al ricorso ad un c. d. diritto penale d’autore, basato non sulla valutazione del fatto in contestazione, ma esclusivamente sul comportamento adottato dall’indagato e/o imputato.Tale tendenza, ha finito per giungere ad una deriva ancora più preoccupante, rappresentata dal ricorso ad una sorta di diritto penale dell’atteggiamento interiore, nel quale si finisce per riconoscere indizi di colpevolezza a carico della persona sottoposta ad indagini o imputata, non già dall’esame dei fatti e delle circostanze in contestazione, ma attraverso la mera osservazione degli atteggiamenti e dei comportamenti di quest’ultima, con il ricorso ad un inammissibile scandaglio dei dati sensibili che conduce alla formulazione di ipotesi e congetture basati su inammissibili valutazioni del carattere e della personalità.Basare l’accertamento della responsabilità penale sulla personalità e sugli atteggiamento di colui al quale il fatto stesso viene contestato porta verso una pericolosa ed inammissibile valutazione del c. d. elemento «spirituale», che finisce per condurre ad una eccessiva esaltazione di quello che è considerato il c. d. «foro interno», che è e deve invece rimanere estraneo alla valutazione della responsabilità penale.Tale tipo di tipo di diritto, come condivisibilmente sostenuto da Federico Eramo, «nelle sue forme estreme, persegue i pensieri reconditi della persona, carpiti violentemente o fraudolentemente con la tortura, la narcoanalisi, la macchina della verità, l’autocritica, o altri strumenti più raffinati e moderni. Il fine ultimo è la repressione del dissenso intimo, senza alcun bisogno di prove concrete ed esterne all’uomo. In questo caso l’attenzione si concentra più sulla potenzialità che sull’attualità della condotta criminosa, con una lesione del principio, imperante nel diritto penale moderno, “nemo patitur cogitationis poenam”, per il quale il semplice pensiero non può essere punito fino a quando non si traduce in un atteggiamento esteriore. Sotto l’impero della sanzione devono cadere le sole azioni esterne, che toccano la convivenza sociale, non anche il “foro interno”, che deve essere escluso da ogni disciplina giuridica e deve rimanere riservato alla coscienza ed al giudizio morale».La valutazione del giudice deve pertanto riguardare solo ciò che è visibile e percepibile dall’uomo, e cioè le azioni o omissioni realmente poste in essere dal soggetto, ed esclusivamente quelle attinenti ai fatti in contestazione, senza spingersi oltre e non invadendo ambiti che riguardano esclusivamente il giudizio relativo alla sfera morale.Tale approccio è invece oggi favorito da un sempre più frequente ricorso alla colpa d’autore, alimentato da un voyerismo mediatico-giudiziario sovente sostenuto dalle opinioni di pseudo-esperti della psiche e del comportamento, mediante l’ingresso nel procedimento e nel processo di perizie e consulenze tecniche che, apparentemente vestite di scientificità, finiscono per favorire l’incursione del giudizio in ambiti che debbono invece rimanere fuori dall’accertamento della responsabilità penale, che è basato come è noto, sul principio del rimprovero e della punizione per ciò che si è fatto e non invece per “come si è” o addirittura per “come si appare” o ancor più pericolosamente per come si viene forzatamente e disinvoltamente “percepiti”.La violazione dei principi costituzionali non può mai essere tollerata nel processo penale e non può mai costituire la base probatoria su cui il giudice può fondare il proprio convincimento oltre ogni ragionevole dubbio.La deriva in corso è molto preoccupante, sono in gioco i nostri principi fondamentali, è in gioco la nostra civiltà giuridica è in gioco il nostro stesso essere cittadini.*Docente di Criminologia nell’Università di Roma “La Sapienza”