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«Non si possono avere oltre 100 morti in sei mesi nelle carceri», afferma la giudice romana Bernadette Nicotra, presidente della Commissione che si occupa della valutazione di professionalità delle toghe al Csm.
Consigliera Nicotra, la situazione è sempre più drammatica. Quanto influisce il sovraffollamento?
Sicuramente per arginare l’elevato tasso di suicidi nelle carceri occorre intervenire sul sovraffollamento. Anche se non è l’unica causa, è certamente una delle principali.
Da dove partire?
Occorre intervenire con urgenza e in modo organico su una riforma del sistema carcerario.
In che modo?
Credo che qualunque progetto di riforma debba fare i conti con la necessità di contemperare sicurezza e libertà, tutelando, anche nella particolarissima condizione carceraria, nel momento di esecuzione della pena, i diritti inviolabili della persona. Nella prospettiva costituzionale della finalità rieducativa della pena e del conseguente reinserimento sociale del detenuto, gioca un ruolo fondamentale la tutela lavorativa e lo sviluppo culturale e umano. Diritto all’inserimento sociale del detenuto e il principio di eguaglianza sostanziale sancito dalla nostra Costituzione all’articolo 3 vanno letti insieme?
Certamente. La Repubblica ha il dovere di porre in essere un programma di interventi affinché la pena sia idonea alla rieducazione e dunque al reinserimento sociale che non si può non declinare come un diritto.
Che ruolo hanno le Istituzioni?
Il loro impegno deve essere quello di predisporre un percorso educativo attraverso l’organizzazione di circuiti penitenziari individualizzati che tengano conto di molteplici profili e della varietà della popolazione carceraria, resa ancora più articolata e complessa per la presenza di persone appartenenti a società caratterizzate da culture assai diverse tra loro. Le carceri italiani sono un disastro. Molte sono ospitate in strutture ottocentesche. Regina Coeli a Roma è stata costruita nel 1650 per ospitare un convento. Le condizioni di sovraffollamento carcerario sono rese ancor più drammatiche proprio a causa di strutture penitenziarie sempre più fatiscenti. Quando si dice che occorre investire sul sistema penitenziario significa maggiori risorse da impiegare nell’edilizia penitenziaria per interventi strutturali e di sistema.
Occorrono nuove carceri?
Sì ma che siano a “misura d’uomo” e dove ci sia spazio per il lavoro quale stimolo per ridare dignità e speranza ai detenuti, dove ci sia spazio per gli incontri e i rapporti con le famiglie affinché non si mortifichi l’affettività di ogni essere umano e dove ci sia spazio per l’educazione e la formazione.
Quindi un “reale” piano carceri se si vuole risolvere alla radice il problema?
Il carcere deve diventare il luogo di risocializzazione e di inserimento sociale, potenziando specifici programmi contenenti attività di tipo culturale, ricreativo, sportivo, religioso e lavorativo. La formazione in carcere deve essere preordinata alla preparazione di figure professionali richieste dal mercato del lavoro. Quest’ultimo deve diventare l’autentico presupposto del reinserimento sociale dell’ex detenuto non soltanto dal punto di vista meramente economico ma soprattutto perché ne aumenta l’autostima e la gratificazione personale. È dimostrato che l’esperienza del lavoro, sia dentro l’istituto penitenziario che all’esterno, serve per impiegare il tempo in modo più proficuo per progettare un futuro una volta conclusa la situazione detentiva. Ed è anche dimostrato che le opportunità lavorative riducono i casi di recidiva e di ricaduta nella devianza.
L’esito del percorso rieducativo non può non dipendere però dal livello di credibilità del sistema penale complessivo.
Senza dubbio. Raramente il recupero del reo potrà avvenire all’interno di un modello ordinamentale ritenuto ingiusto e inefficiente. Occorre incentivare il ricorso alle pene alternative alla detenzione ma nello stesso tempo sottoporre a controlli sul territorio di chi ne fruisce. In questa prospettiva va accolta con favore la proposta del governo di innalzamento dello “sconto ordinario” di pena da 45 a 60 giorni.
E poi c’è il tema del personale che lavora nelle carceri.
Una buona riforma non può prescindere dall’attenzione ai problemi del personale penitenziario che va rimotivato perché migliorare le condizioni dei detenuti senza migliorare le condizioni del personale penitenziario sarebbe un errore. C’è urgenza di interventi che vanno dall’incremento degli agenti di polizia penitenziaria, spesso sottodimensionati e costretti a turni di lavoro estenuanti, agli incentivi economici per gratificare e rendere più allettante la professione, fino ad una più adeguata formazione per avere un personale più qualificato, preparato e consapevole della delicata funzione e dei suoi rischi. E poi soprattutto è indispensabile il potenziamento del sistema sanitario all’interno delle carceri al fine di garantire sia le cure farmacologiche specifiche sia i supporti psicologici e psichiatrici per curare il surplus di sofferenza psico- fisica connesso allo stato di detenzione e prevenire i sempre più frequenti episodi di autolesionismo.
Magistratura indipendente, la corrente di “destra” di cui fa parte, è spesso accusata di avere minore attenzione ai temi legati al disagio sociale e di conseguenza a coloro che a causa di tale disagio finiscono in carcere. Cosa risponde?
Guardi, la dirigenza di Magistratura indipendente ha recentemente rivolto un appello anche al Csm, per quanto di sua competenza, affinché intraprenda iniziative concrete in modo che il carcere “non sia più strumento di vendetta sociale”.
Cosa può fare il Csm?
Lo scorso luglio è stata rinnovata la Commissione mista per i problemi della magistratura di sorveglianza e dell’esecuzione della pena, i cui obiettivi comprendono anche lo sviluppo delle misure alternative al carcere, la tutela della salute e la rieducazione dei detenuti. L’intento è riattivare sinergie tra il Csm, il ministero della Giustizia, la magistratura di sorveglianza, per trovare soluzioni condivise alle problematiche connesse alla funzionalità degli uffici di sorveglianza, alla esecuzione della pena, alla tutela dei diritti dei detenuti e degli internati.
È quindi favorevole alla proposta del deputato di Italia viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata, da 45 a 60 giorni ogni 6 mesi?
Potrebbe essere una delle possibili soluzioni al sovraffollamento e va nella direzione del reinserimento sociale del detenuto che abbia dato prova concreta di partecipazione all’opera di rieducazione.