«Siamo abituati a confondere la colpa con la responsabilità. Il carcere è lo specchio della società: se produce disagio, il disagio si manifesta. Ma per far sì che il carcere serva a qualcosa dobbiamo riempire i vuoti con valori e parole. I ragazzi chiedono di essere visti». A dirlo è Girolamo Monaco, direttore dell’Istituto per minorenni di Treviso.

Direttore, qual è la situazione della giustizia minorile?

Credo che il carcere sia lo specchio della società. È tanto vero il rapporto che c’è tra carcere e società che la nostra Costituzione, come diceva Calamandrei, è stata scritta in carcere. I reati sono figli delle culture, che non sono più quelle di 30 anni fa, di questi rapporti modificati. Sono aumentati le rapine con aggressione, le risse, i tentati omicidi. In carcere arrivano minori che sono figli di questa società in difficoltà a gestirsi. Ma se i modelli esterni sono quelli che sono, cosa devono assorbire questi giovani? Così tutti gli istituti d’Italia sono sovraffollati. Qui a Treviso siamo al doppio della nostra possibilità, ma tutte le strutture sono al limite.

Ma questo sovraffollamento è aumentato negli ultimi tempi, a seguito del dl Caivano?

È aumentato sicuramente negli ultimi nove mesi. E secondo me c’entra anche un effetto di ritorno dovuto al Covid: c’è stata una slatentizzazione di pulsioni, di pressioni. Il decreto Caivano, dal canto suo, ha reso “carcerizzabili” reati che prima non prevedevano la custodia, come l’oltraggio pubblico ufficiale o il furto semplice.

Quindi il sovraffollamento non ha a che fare con i minori non accompagnati?

Qui a Treviso rappresentano una presenza veramente minima. La maggior parte dei ragazzi sono del territorio, con il cognome tronco, dico io. Sono figli del disagio di queste famiglie, delle nostre famiglie. Ci sono ragazzi, cittadini italiani, che non hanno la licenza media. E quando stavo a Caltanissetta c’erano minori italiani, non stranieri, che non sapevano né leggere né scrivere, che firmavano in stampatello.

Come si può intercettare e curare questo disagio?

Bisognerebbe farlo partendo dalla scuola. Ma è tutto il mondo degli adulti che si deve interrogare. Viviamo in una società che non ha limite, troppo fluida. Ognuno si sente onnipotente.

E il carcere cosa può fare?

Può tentare di riempire i vuoti che quel reato evidenzia. I vuoti dovuti alla cattiva gestione dell’aggressività, i vuoti culturali di apprendimento e i vuoti di relazione. Non deve insegnare soltanto un mestiere, perché in questo modo non si evita la recidiva. Il carcere deve cercare di riparare le ferite. E serve solo a una cosa: a fare toccare il fondo. Da quel fondo bisogna risalire.

Ma gli istituti italiani riescono a farlo?

Io posso parlare del mio carcere. Il carcere che voglio io è un carcere pieno, non vuoto. Il tempo della carcerazione non è il tempo della privazione della libertà, ma è un tempo da riempire con significati. Comprendendo cosa fare per riparare il danno fatto, che è un danno contro la vittima e contro la società. Cosa ci ha insegnato Caivano? Che gli spazi vuoti vengono riempiti di violenza. Gli spazi pieni vengono riempiti di significato, di valori. Lo so, detto così sembra un’utopia. Ma è il senso del nostro lavoro. Però il carcere serve. Serve dire basta. Se abbiamo il coraggio di presentarci noi adulti come modelli positivi, forse qualche cosa si può fare. Ma devo dare atto dell’impegno del capo del dipartimento della giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano, per dare ordine morale organizzativo al sistema penale per i minorenni: anche lui, come me, è un don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento.

Com’è la situazione a Treviso?

In questo momento abbiamo cinque definitivi su 23 persone. Gli altri sono in custodia cautelare, anche per cose minime, reati che prevedono un massimo di tre mesi di custodia. C’è un turn over continuo. Abbiamo un centro di prima accoglienza che è passato da un ingresso ogni 15 giorni a due arresti a settimana. Abbiamo una situazione di sovraffollamento che non sta creando difficoltà proprio grazie alle nostre capacità relazionali: pur avendo pochi agenti non faccio saltare mai le attività ai ragazzi. E questo permette di prevenire molte situazioni di tensione. Ma la mia paura vera è che possa esserci un’emergenza sanitaria.

Ha mai visto nella sua carriera così tanti giovanissimi in carcere?

No. È sicuramente un tratto nuovo di questi tempi. Non ho mai visto, come in questo periodo così tanti quindicenni. Anche ragazzi di appena 14 anni.

E c’è anche l’ipotesi di abbassare l’età punibile…

Non risolverebbe niente. Il problema non è l’età. Noi abbiamo confuso la colpa e la responsabilità. Se mio figlio di dieci anni rompe qualcosa, la colpa è di mio figlio, ma la responsabilità è mia, è collettiva. Se noi vogliamo trovare le colpe le troveremo e possiamo abbassare l’età anche a 10 anni, ma non avremo colpito le responsabilità.

Che effetto può avere, su ragazzi così giovani, il sovraffollamento? Nelle carceri per adulti, purtroppo, sappiamo come vanno le cose.

I ragazzi si tagliano, si fanno tatuare. L’unica cosa di cui abbiano il controllo è il loro corpo. E allora lo si devasta, per dare voce al proprio disagio. È un grido d’aiuto: sono ragazzi abituati ad essere visti solo se c’è un’emergenza. Ragazzi che non hanno una modalità di comunicazione. Non si sentono ascoltati, non si sentono riconosciuti. Per cui se non mi ascolti, mi taglio, così mi ascolti. Noi cerchiamo subito di intervenire con psicologi ed educatori: ogni ragazzo è preso in carico da un educatore che incontra quotidianamente.

Come si fa a “vederli” e ascoltarli, questi ragazzi?

La prima cosa è parlare. Il carcere è il luogo del silenzio e invece questo silenzio deve essere riempito di parole. Noi facciamo molti corsi di scrittura autobiografica, di canzoni. Un disagio parlato è già mezzo affrontato. Bisogna avere personale che voglia e sappia parlare.

C’è questo personale, in termini di numeri e preparazione?

Siamo sotto organico. Sicuramente come polizia penitenziaria siamo al limite delle presenze. L’ 8 luglio prenderanno servizio 11 nuovi agenti, non so se sono formati, ma li formeremo noi. La vera formazione è quella in itinere. Arrivano giovani di 23- 24 anni, allievi, ragazzi insieme ai ragazzi e vanno formati. Ma ho una buona squadra di educatori, che hanno esperienze anche pregresse, dentro le comunità: lì dentro il lavoro è difficilissimo, anche più che in carcere.

Com’è possibile arrivare a situazioni come quelle registrate al Beccaria?

Noi abbiamo il dovere di guardare sia ai nostri utenti sia agli operatori. Perché cose come le violenze del Beccaria sono possibili perché nessuno ha detto al collega “fermati”. Io ogni mattina convoco una conferenza di servizio e il comandante informa i colleghi delle situazioni fragili. Le persone vanno conosciute e vale anche per i poliziotti: sono uomini, figli anche loro della società. Come deve essere guardato un detenuto, deve essere guardato anche un collega.

Ci sono storie che le sono rimaste particolarmente nel cuore?

C’è un ragazzo che, in questo momento, si trova in affidamento in prova presso una comunità e ha avviato un percorso bello: presta servizio di aiuto e pulizia alla Caritas Diocesana di Treviso e serve il cibo ai senza tetto. Ci sono ragazzi sono andati all’università. Ragazzi che mi scrivono e mi fanno vedere la fotografia dei figli. E purtroppo ci sono anche tanti ragazzi che sono morti, uccisi. Noi non siamo i padroni della libertà. La libertà è individuale. Noi, però, abbiamo il dovere di accompagnare questi ragazzi per un pezzo di strada. Al massimo delle nostre capacità.