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Come andrà a finire questa diciottesima legislatura nessuno ancora è in grado di capirlo. Sostituita la psicanalisi alla politologia, le variabili scendono nella zona grigia dell'imponderabile e poi bisogna anche capire a quale scuola vogliamo aderire: freudiana, junghiana o lacaniana? Troppo complicato. A spanne sembrerebbe che, se non a settembre, nella prossima primavera potrebbe verificarsi lo show down col voto anticipato e buonanotte ai suonatori.
Certo, resta la questione di una moltitudine di potenziali disoccupati: dai fasti dei Palazzi al reddito di cittadinanza sarebbe un bel salto. Si consiglierebbe un po’ di training autogeno. Lo yoga aiuterebbe: il mantra dell'om ogni mattina apre il cuore alla speranza. Auguri. In vista del grande salto ( temuto, amato, atteso comunque) la fantasia degli osservatori, in cerca di cose da osservare sotto l'ombrellone, si scatena sulle possibili liste ai nastri di partenza di un’eventuale elezione anticipata, oltre, naturalmente, a quelle dei partiti già rappresentati in Parlamento ( M5S, Lega, Pd, Fi, FdI, Leu).
Spunta la lista Conte, che qualche sondaggista valuta addirittura intorno al 12% potenziale. Avvertenza: “le considerazioni che seguiranno saranno svolte in chiave di assoluta neutralità scientifica e senza contaminazioni ideologiche”. Lasciamo, dunque, da parte, almeno per il momento, le valutazioni circa la volontà, idoneità, collocabilità politica ( sinistra? centro? area tecnico- moderata? volto umano del pentastellatismo?) del presidente del consiglio Conte e domandiamoci innanzitutto se la profezia del sondaggista è plausibile. Direi proprio di sì. In una stagione di politica distratta e superficiale come un surf sulle onde del mare californiano, la notorietà è già consenso, soprattutto quando si presenta circonfusa dall’aura istituzionale.
Non era così nella Prima Repubblica, almeno fino all’avvento di Craxi e Pannella che scoprirono e adoperarono con sperimentazioni diverse il valore decisivo della comunicazione televisiva: prima era stato il trionfo delle cinquanta sfumature di grigio- democristiano, declinate in politichese morbido e rassicurante. A partire da un quarto di secolo fa non è più stato così e l’epopea berlusconiana lo illustra sapientemente. Dunque più stai nelle orecchie e negli occhi della gente, più ti tieni lontano dalle risse dei talk show, più sei presidente del consiglio e più rientri tra le prime opzioni del pubblico- elettore. Un ripassino? Dini, presidente del Consiglio “tecnico” nel 1995, in un anno e quattro mesi di governo riuscì a raccogliere con la sua lista un risultato pari al 4,4%, Monti, presidente tecnicissimo, che recò in dono anche la ministra del lavoro Fornero, quest’ultima non particolarmente popolare tra gli elettori, raccolse sorprendentemente l’ 8,3%.
Potremmo ricordare anche Renzi, primo ministro in carica quando si svolsero le elezioni europee del 2014 col risultato storico del 40,5% per il PD, ma sarebbe parzialmente improprio perché in questo caso c’era comunque un partito e non una lista del presidente. Ho usato il termine “parzialmente” perché in realtà si trattava di un PD renzizzato, ma, insomma, non è una situazione comparabile con quella delle liste del presidente. Piuttosto Gentiloni, che nell’ultima fase della passata legislatura veniva valutato, in caso di discesa in campo con lista propria, intorno al 6- 7%.
Insomma la regola del presidente vale sempre. E’ una possibilità in agguato che può essere spesa ( Dini, Monti) oppure no ( Gentiloni). A ben vedere, però, chi l’ha spesa con profitto nella storia dell’ultimo quarto di secolo, sono stati i “presidenti tecnici” già evocati, a cui va aggiunto Prodi che, in fondo non solo era un tecnico, ma presentò anche una coalizione di liste che portò il suo brand: l’ulivo.
Conte, Tria, Moavero hanno di che ragionare.