La riforma costituzionale della separazione delle carriere, inemendabile in Parlamento, viaggia verso il referendum 2026. Ne parliamo con l’avvocato e professore Giovanni Guzzetta, ordinario di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma “Tor Vergata”.

I magistrati agitano spesso la Costituzione per opporsi alla riforma. Qual è il suo parere di costituzionalista su questo?

Se la Costituzione viene agitata per sostenere l'illegittimità della riforma, l’affermazione è infondata. La Consulta, in varie sentenze, tra cui la 37/2000 e la 58/2022, afferma che la Costituzione “non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati”. Se invece si vuole evocare la Costituzione perché si ritiene che la soluzione politica promossa dalla maggioranza sia una rottura simbolica e pratica rispetto alla volontà e alla lungimiranza quasi mistica dei padri costituenti, siamo di fronte a quello che chiamo “l'argomento carismatico” contro la separazione delle carriere.

Ossia?

Fare della riforma una sorta di tradimento del patto fondativo, scolpito nel granito della storia come un dogma intoccabile, è storicamente errato, in quanto i padri costituenti su questo tema fecero una scelta volutamente congiunturale, obbligata in presenza del modello processuale inquisitorio, allora vigente. I tanti, autorevolissimi, costituenti - da Moro a Bettiol a Calamandrei, Einaudi, a Leone - che parteciparono a quel dibattito, erano perfettamente consapevoli che la soluzione di un'unica carriera non fosse quella migliore. Proprio Bettiol nel 1947 dichiarava: “le funzioni del pubblico ministero non devono essere incapsulate insieme a quelle dei giudici, ma tenute distinte. È proprio dei regimi totalitari voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia”. E, infatti, ne auspicavano la modifica una volta introdotto il processo accusatorio. Cosa avvenuta nel 1989. Sono passati quarant’anni. Forse sarebbe l’ora di onorare la volontà dei costituenti.

Le toghe hanno scioperato sostenendo di farlo non per una rivendicazione sindacale ma per tutelare le garanzie dei cittadini. L'Anm ha diritto a scioperare?

Qui io vedo un pericoloso lapsus linguae: lo sciopero nel nostro ordinamento si pratica per rivendicazioni strettamente contrattuali o per ragioni politico-economiche legate agli interessi della categoria che lo fa. Non mi pare che l’Anm voglia inquadrarlo in questo schema. Mi sembra, viceversa, che l'impostazione sia quella di contestare l’indirizzo politico del Governo in nome dell’interesse generale. Siamo fuori dal perimetro dello sciopero.

E dove ci troviamo?

Dinanzi ad una manifestazione di contestazione, di disobbedienza civile se si vuole, in nome degli interessi generali. Le motivazioni che la stessa Anm dà sono la prova che si tratta di un'iniziativa di carattere eminentemente politico. Ma se questo è lo spirito che l’Anm orgogliosamente e legittimamente rivendica, mi chiedo se sia coerente esprimerlo bloccando l'esercizio delle proprie funzioni, quindi in quanto magistrati, e non, come sarebbe più corretto, in quanto cittadini, con modalità a disposizione di qualsiasi cittadino.

Le opposizioni parlamentari hanno lamentato la mancanza di accoglimento anche di un solo loro emendamento. Critica opportuna per una riforma costituzionale?

La Costituzione consente alla maggioranza di fare una riforma senza l'accordo con l'opposizione, salvo poi esporsi al rischio del referendum. Ovviamente, anche ai fini di un maggior consenso, si può valutare questo aspetto, ma non è un problema di costituzionalità, bensì di opportunità politica.

Il sottosegretario Delmastro ha ammesso al Foglio che dopo la riforma della separazione sarebbe naturale sottoporre il pm all'Esecutivo. Allora sono reali i timori espressi dall'Anm?

Delmastro ha la sua opinione personale. Ma io non vedo una consequenzialità tra la riforma e questa soluzione; tanto è vero che lo stesso progetto di ordinamento giudiziario del Ministro Grandi nel 1941 prevedeva la sottoposizione del pm all'Esecutivo in un contesto di unità di carriera. Quindi tra le due soluzioni non c'è alcun legame logico.

Si parla spesso di cultura della giurisdizione. I contrari alla riforma sostengono che il pm non potrà più condividere la cultura del giudice. C'è questo rischio?

È l'argomento che io chiamo della “paura di perdere il contagio”: si fonda sull'idea che l'unità delle carriere determini un contagio positivo dei pm con la cultura del giudice. Però, logicamente, il contagio può avvenire nelle due direzioni: può esserci un contagio a favore della cultura della giurisdizione, ma allo stesso tempo il giudice può essere “infettato” dalla cultura inquisitoria del pm.

Il Ministro Nordio, nell'evento organizzato da Noi Moderati, durante il quale è intervenuto anche lei, ha ammesso che la riforma non rende più efficiente la giustizia e che i pm nei consigli giudiziari valutano i giudici con imparzialità, ma il cittadino non ha questa visione. Un po' poco per una riforma costituzionale?

Ma l'efficienza non può essere l'unico valore della giustizia; allora basterebbe attribuire questo potere a un solo uomo o a una macchina. L’efficienza è fondamentale, ma anche un’amministrazione della giustizia equilibrata è fondamentale.

A ogni decisione sgradita dei giudici, la maggioranza urla alla “sentenza politica”, tanto da spingere ad un intervento della prima presidente di Cassazione, Margherita Cassano. Non le sembra che siano il Governo e la maggioranza a non rispettare la separazione dei poteri?

Premesso che sono decenni che il dibattito è inquinato dalla logica frontista da guerra di religione, va ricordato che non è il dibattito a minacciare i rapporti tra i poteri, bensì il modo in cui funzionano. Ognuno, secondo le proprie inclinazioni, dosa le parole come ritiene, però una cosa è criticare le decisioni dei magistrati oppure quelle della politica, altra cosa è quando i poteri si intralciano reciprocamente. Non mi pare che questo discenda da dichiarazioni verbali.