Di fronte alle motivazioni della Cassazione sulla sentenza Open, il leader di Italia viva Matteo Renzi prima esulta, ma poi spiega che «il Paese ha perso, perché una vicenda di questo genere segna la sconfitta della politica e la vittoria del giustizialismo». Poi aggiunge che l’idea di «tornare al finanziamento pubblico» non lo convince e attacca la maggioranza: «Salvini e Tajani sono come due bimbetti che litigano per il giocattolino».

Presidente Renzi, le motivazioni della sentenza sul caso Open certificano il fallimento dell’attacco della Procura di Firenze: a questo punto considera quanto accaduto una vittoria su tutti i fronti, quantomeno giudiziari?

Abbiamo vinto, anzi stravinto nel processo. Vinto facendo i ricorsi, argomentando sotto il profilo giuridico, portando argomenti contro la furia ideologica di chi ci ha aggredito. Ma purtroppo abbiamo perso tempo, soldi, consenso. Ci hanno distrutto la vita e hanno azzoppato il percorso di Italia viva. Mediaticamente, il coro di crucifige è stato quasi unanime, e non è un caso, io credo, che le motivazioni della sentenza Open siano finite nei trafiletti con pochissime eccezioni, lodevoli come la vostra. Noi abbiamo vinto il processo, ma il Paese ha perso perché una vicenda di questo genere segna la sconfitta della politica e la vittoria del giustizialismo: lo ha spiegato bene qualche giorno fa in radio un avversario quale Guido Crosetto. Cui dico grazie perché ha riconosciuto la verità a differenza di quanto hanno fatto Giorgia Meloni e gli altri dirigenti del suo partito.

Il caso Open, soprattutto per come è finito, ha riaperto il dibattito sul finanziamento ai partiti, visto anche quanto accaduto di recente, basti pensare al caso Toti in Liguria. È un tema che la politica dovrebbe avere il coraggio di affrontare senza paura?

Il tema del finanziamento ai partiti è molto complesso. Il nodo non sono le regole del finanziamento ma il fatto che qualche magistrato ideologico, come nel mio caso il dottor Luca Turco, già procuratore aggiunto a Firenze e ora felice pensionato, abbiano interpretato quelle norme con maxi processi il cui obiettivo era aggredire me, non trovare la verità. Perché se la verità fosse stato l’obiettivo, il processo sarebbe finito dopo la prima decisione della Cassazione. Dunque è giusto che ci siano regole, e non mi convince la scorciatoia di tornare al finanziamento pubblico. Quanto a Toti, ho grande rispetto per lui ma nel momento in cui sceglie di patteggiare rende meno forte la sua battaglia. Quando qualcuno mi ha proposto di patteggiare su Open l’ho mandato a stendere: io sono innocente e dunque vinco nel processo, non patteggio.

Del resto si parla molto negli ultimi anni di come la politica si “alimenti”, finanziariamente parlando, e lei stesso viene spesso tirato in ballo: basti pensare alle recenti norme del governo. Discussioni lunari o necessarie?

La politica ha bisogno di soldi, non ci giriamo attorno. Giorgia Meloni dice di essere una underdog che si è fatta da sola, ma come dimostro nel libro L’Influencer è la raccomandata della seconda Repubblica. E ha fondato Fratelli d’Italia con un bonifico di Forza Italia. Le norme contro di me invece non riguardano il finanziamento alla politica. Giorgia Meloni prende le critiche dell’opposizione come un affronto personale. E dunque ha fatto fare una norma ad personam contro i miei incarichi professionali. I giustizialisti hanno provato a buttarmi fuori dalla politica con le indagini, i Fratelli d’Italia con le leggi ad personam: mi spiace per loro, io sono qui e non intendo mollare. Anzi, non lascio ma raddoppio.

A proposito del suo libro: perché definisce Giorgia Meloni “l’influencer”?

Perché è una donna che non decide nulla di sostanziale, non fa le riforme, non cambia le cose. Però è brava a comunicare. Sono contento dell’accoglienza e dal numero di vendite ma la cosa che più mi affascina sono i primi commenti che mi stanno arrivando da chi ha finito il libro. Molti dicono: non avrei mai potuto immaginare che fosse tutto così drammaticamente assurdo e vero. Chi arriva alla fine della lettura capirà perché considero una battaglia di civiltà dire di no al modo di procedere della Influencer e del suo partito.

Tornando alle discussioni lunari, nel resto d’Europa gran parte delle opinioni pubbliche, a partire da quelle di Francia, Germania e Regno Unito, si considera praticamente già in guerra con la Russia, e quei Paesi non escludono l’invio di truppe in Ucraina. In Italia invece il dibattito è su Ventotene: troppa nonchalance da parte nostra o sono gli altri che corrono troppo?

Non siamo in guerra con la Russia. E chi crede alla politica sa che la priorità oggi è trovare il modo di fare la pace tra Ucraina e Russia. O almeno una tregua. Questo è lo sforzo del primo ministro saudita Bin Salman che sta ospitando a Ryad i colloqui tra americani, russi e ucraini. Mi spiace che l’Europa non abbia fatto una proposta diplomatica e non sia al tavolo. Gli ambasciatori esperti hanno un modo di dire: quando non sei al tavolo, sei nel menù. L’Italia di Meloni e l’Europa di von der Leyen mi sembrano più nel menù che al tavolo. E credo che questo sia un problema enorme di cui si parla troppo poco.

Proprio sulla politica estera c’è molto dibattito nella maggioranza, con attacchi un giorno sì e l’altro pure tra Lega e FI: pensa che le opposizioni debbano prepararsi a una possibile crisi di governo, nonostante le rassicurazioni di Meloni e alleati? E l’opposizione come può stare insieme essendo così divisa?

Salvini e Tajani sono come due bimbetti che litigano per il giocattolino. Nessuno dei due è minimamente interessato al posizionamento dell’Italia: cercano un po’ di consenso. Le poltrone sono un collante formidabile per questi, non romperanno fino al 2027. Quanto alle opposizioni, purtroppo la politica estera divide a metà le coalizioni sia a destra che a sinistra: rimpiango i tempi in cui sulla base del posizionamento internazionale si facevano o cadevano i governi. Pensi alla rottura del 1947 tra De Gasperi e Togliatti, dovuta al rapporto con gli Stati Uniti d’America. O ai fatti del 1956 che danno inizio al percorso di costruzione del centrosinistra con Fanfani. O ancora all’intervista di Berlinguer che aprendo alla Nato getta le basi del compromesso storico. Un tempo la politica estera era un collante, oggi un elemento di divisione. La destra è divisa ma alle elezioni va unita. Se vogliamo vincere come centrosinistra dobbiamo fare la stessa cosa trovando tre temi su cui costruire una coalizione: stipendi, sanità, educazione. Per me sono i tre pilastri della maggioranza di domani.

E dunque veniamo al centrosinistra: Elly Schlein sta giocando una partita tutta personale nel Pd, con i riformisti in pressing (vedi voto a Strasburgo) e lei che sembra voler tenere la barra diritta anche se questo significa andare contro il PSE. Pensa che alla fine la linea della segretaria pagherà?

Non so. E non mi interessa: non è più il mio partito e dunque l’ultima cosa di cui il Pd ha bisogno che mi ci metta anche io a commentare. Mi pare che per litigare non abbiano bisogno di me, sono bravissimi da soli. I riformisti hanno messo nel mirino la Schlein, dice lei. Secondo me no. Hanno solo provato a ipotecare un po’ di candidature nel 2027. Finché non ci saranno le preferenze e la segreteria decide come vuole i riformisti rischiano grosso. E credo che di questo stiano parlando in queste settimane: delle candidature, non della linea politica. Quanto a noi, saremo il centro che guarda a sinistra come diceva De Gasperi. Non voglio lasciare alla destra la rappresentanza del mondo produttivo, riformista, moderato. Da quando è apparso sui giornali il tema dei dazi con Salvini che ha risposto nel modo più assurdo possibile, dicendo che i dazi sono una opportunità per le aziende, siamo presi d’assalto da imprenditori, dirigenti e operatori che chiedono di costruire un’alternativa a questo governo.