Ci sono voluti più di trent'anni perché scoprissi la ragione per la quale Tina Anselmi mandò a quel paese Francesco Cossiga sbattendogli il telefono in faccia: cosa, quest'ultima, che ho riferito quasi come un inciso ai lettori de Il Dubbio nell'articolo rievocativo della mia carissima amica alla notizia della morte.Anna Vinci, collaboratrice e biografa di Tina, ha appena rivelato, parlando con i giornalisti che l'hanno avvicinata nella triste circostanza della scomparsa dell'ex presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2, che "fra le carte" scoperte a suo tempo dall'Anselmi ci fu una lettera di Licio Gelli, capo di quella famosa loggia massonica, proprio a Cossiga. Una lettera nella quale il "venerabile" massone gli chiedeva di "essere difeso dall'Anselmi".Presumo che la lettera risalga agli anni in cui Cossiga non era ancora presidente della Repubblica ma "solo", diciamo così, presidente del Senato perché fu proprio in quella veste ch'egli una volta mi riferì, allibito, di essersi sentito sbattere il telefono in faccia dalla nostra comune amica Tina per avere osato raccomandarle "prudenza"- mi disse - nella conduzione della commissione d'inchiesta.Cossiga non mi parlò di Gelli, e tanto meno della lettera, ma di alcuni nostri comuni amici che, ritrovatisi a torto o a ragione nelle liste della P2. Iscritti davvero, o che avessero solo avuto l'idea di farlo, o l'avessero fatto per poi rinunciarvi, com'era accaduto in particolare ad Adolfo Sarti, essi erano ormai entrati nel frullatore dello "sputtanamento". E si erano visti trasformare dalla mattina alla sera da carrieristi e affaristi, nella peggiore delle ipotesi, a "golpisti".Fra questi amici, sapendoli appunto frequentati anche da me, Francesco citò, in particolare, l'ex direttore del Gr 2 Gustavo Selva e lo scrittore Roberto Gervaso. Di cui ricordo ancora l'invito che mi fece una volta, quando lavoravo al Giornale diretto da Indro Montanelli, di partecipare con lui ad un incontro fra autorevoli ufficiali argentini in missione a Roma. La riunione era stata fissata in un albergo romano vicino alla Stazione Termini, dove mi promise che mi avrebbe presentato il suo amico Gelli, parlandomene un gran bene per le conoscenze che aveva nel mondo dell'editoria.Per fortuna, pensate un po', a quell'appuntamento non feci in tempo ad arrivare per un banale guasto alla macchina e per la mia fortunata allergia a lasciarla abbandonata sul posto per chiamare o saltare sul primo taxi libero di passaggio. Mi andò bene. Quando scoppiò lo scandalo della P2, vidi i problemi in cui era incorso Gervaso anche nei rapporti con Montanelli, di cui pure era stato coautore di libri sulla storia d'Italia, e cui un po' si compiaceva, scherzando, anche di assomigliare fisicamente. Ringraziai la buonanima di mio padre, morto già da parecchi anni, per avermi protetto.Poi, quando divenni direttore del Giorno, nel 1989, quando pensai che fosse trascorso abbastanza tempo per attendersi una valutazione più distaccata e selettiva dei fatti gelliani, invitai Gervaso a collaborare alla terza pagina con un appuntamento fisso. La firma di Gervaso da sola poteva valere qualche decina di migliaia di copie, visti i suoi successi nelle librerie. E Dio solo sa quanto Il Giorno avesse bisogno di ingrassarsi nelle edicole. Mi sembrò poi che potessi essere abbastanza forte in eventuali polemiche per una circostanza che vi racconterò fra poco. Non l'avessi mai fatto. La redazione mi proclamò una giornata di sciopero, proprio la sera in cui ero a cena nel Varesotto coll'editore, l'allora presidente dell'Eni Franco Reviglio, che ne rimase turbato.Il ministro delle Partecipazioni Statali Carlo Fracanzani fu investito da interrogazioni di protesta alle quali rispose, in verità, considerando legittima la mia scelta, bontà sua. Ma, come le sentenze giudiziarie, la risposta arrivò in ritardo, quando l'amico Gervaso, un po' indignato con la redazione e un po' per non complicarmi ulteriormente la vita, aveva già rinunciato irrevocabilmente alla collaborazione. Allo stadio milanese di San Siro, la domenica successiva, il comune amico Silvio Berlusconi si dolse che io non avessi respinto le dimissioni di Roberto, pur non avendo lui mai fatto nulla per indurre Montanelli a farlo collaborare all'ormai suo Giornale.D'altronde, debbo dire che non era riuscito a smuovere Montanelli neppure la mamma di Indro, la mitica Maddalena, che di Roberto Gervaso era un'ammiratrice, e amica anche dell'allora sua fidanzata, o già moglie, non ricordo. La povera Maddalena chiese anche a me di intervenire sul figliolo, ma non ci fu verso. Questo, pensate, era il clima che s'era creato attorno alla faccenda della P2.###########Appunto di quel clima si dolse con me l'allora presidente del Senato Cossiga, tra la fine del 1983 e l'inizio del 1984, quando mi raccontò del trattamento ricevuto al telefono dall'Anselmi, senza tuttavia parlarmi -ripeto - di una qualche lettera ricevuta da Gelli. Mi sentii pertanto autorizzato alla prima occasione di un incontro casuale con Tina, nel perimetro stradale del Parlamento, di chiederle che cosa le avesse mai fatto il nostro comune amico Francesco e, più in particolare, che cosa le avesse fatto maturare la convinzione che la loggia P2 fosse la peggiore e più pericolosa sentina della Repubblica.Credo che solo il ricordo di Aldo Moro, e della comune simpatia che ci aveva legati a lui, anch'essa raccontata ai lettori de Il Dubbio qualche giorno fa, avesse trattenuto Tina dal mandare a quel paese anche me. Ma dopo qualche attimo di esitazione, prendendomi sotto braccio, e guardandosi bene dal parlarmi di generali, ambasciatori, prefetti e capi di servizi segreti, di cui pure era piena la lista della P2, ebbe la cortesia di parlarmi solo degli aspetti giornalistici dell'attività di Gelli e dei suoi affiliati. Mi parlò, in particolare, confermandomi le anticipazioni d'altronde già uscite sul lavoro e sulle carte della sua commissione, dei tentacoli della P2 che, dopo avere avvolto il Corriere della Sera, avevano cercato di coinvolgere il gruppo editoriale maggiormente concorrente: quello dell'Espresso e Repubblica, con un'intesa fra Lucio Caracciolo e Bruno Tassan Din sulle aree di diffusione dei loro giornali e su una cooperazione che certo non ne esaltava o esasperava la concorrenza. Ti sembra - mi chiese Tina- che questo sia pluralismo di una sana democrazia? E alla mia obiezione che entrambi i gruppi fossero però accomunati da una stessa linea politica, o quasi, a lei non certamente sgradita - che era la ripresa della "solidarietà nazionale" fra la Dc e il Pci, interrottasi nel 1979 per volontà dei comunisti, dopo la morte di Moro, e poi sostituita di fatto dalla ripresa della collaborazione di governo fra la Dc e il Psi di Bettino Craxi - Tina mi spiazzò letteralmente con questa bruciante risposta, indicativa della sua cristallina onestà, personale e politica: "E che c'entra questo? Una buona linea non può giustificare una gestione opaca della democrazia". Una risposta che vorrei sottoporre all'attenzione di quei sia pur pochi commentatori che hanno riproposto anche dopo la sua morte le loro critiche alle "esagerazioni" dell'Anselmi: fra questi, il pur ottimo Massimo Teodori, ex deputato del partito radicale di Marco Pannella e autore di una relazione di minoranza della commissione d'inchiesta sulla P2.Ah, ce ne fossero state di altre come Tina, allora. E ce ne fossero oggi che la politica arranca peggio di un corridore sfinito sulle strade dolomitiche.#############L'anno dopo, poco meno o poco più da quelle quattro chiacchiere con Tina, quando già lei aveva steso e fatto approvare dalla sua commissione la relazione finale dell'indagine sulla P2, curiosamente destinata ad approdare però nell'aula di Montecitorio solo nel mese di marzo del 1986, e quando mancavano pochissimi mesi alla promozione di Cossiga da presidente del Senato a presidente della Repubblica, con la regìa perfetta dell'allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, cui bastò una sola votazione parlamentare per aprire e chiudere la partita della pur difficile successione a un presidente così popolare com'era stato Sandro Pertini, mi capitò di vivere una rocambolesca avventura professionale.Ero editorialista del quotidiano fiorentino La Nazione, approdatovi dopo l'uscita dal Giornale, con Enzo Bettiza, per un onesto e trasparente dissenso di valutazione della linea e dei progetti politici di Bettino Craxi. Alla fine di febbraio del 1985 venne improvvisamente annunciata la nomina a direttore di Renato Ciuni, un giornalista con i fiocchi, per carità, già direttore del Mattino, ma del giro gelliano della P2. Sulla sua linea politica erano uscite indiscrezioni contraddittorie: sia di cambiamento, a favore della già archiviata solidarietà nazionale, sia di conferma di quella che esprimevo nei miei editoriali, ma con imprecisate e imprecisabili correzioni di cui nessuno ritenne di mettermi al corrente. Divenni quanto meno sospettoso. Alla fine, anche a costo di sembrare quello che - vi assicuro - non ero, cioè un concorrente deluso alla direzione della testata, essendo ancora abbastanza giovane per coltivare anche ambizioni migliori, decisi non solo di oppormi ma di raggiungere Firenze per partecipare personalmente all'assemblea di redazione chiamata all'espressione contrattuale del gradimento.Posso a questo punto raccontarvi che nel bel mezzo dell'assemblea gli uscieri mi chiamarono per rispondere ad una telefonata riservata. Pensai, francamente, che fosse il vecchio editore Attilio Monti, che due anni prima mi aveva accolto simpaticamente a braccia aperte alla Nazione e che pensavo deluso e infastidito della mia resistenza all'insediamento di Ciuni. Invece all'altro capo del telefono era, da Palazzo Chigi, Bettino Craxi, che Monti aveva pregato di intervenire su di me per fermarmi."Che cazzo sta succedendo? ", mi chiese sbrigativamente Bettino. Io gli spiegai il mio doppio timore: o un cambiamento di linea in direzione del ritorno al rapporto preferenziale fra la Dc e il Pci o una conferma della linea favorevole alla sua politica non sapevo ancora con quale correzione, ma sicuramente destinata a subire i contraccolpi propagandistici della direzione di un collega ormai noto più per la sua partecipazione al mondo di Gelli che per la sua indubbia professionalità. Bettino rimase per un attimo silenzioso e poi, dopo avere borbottato qualcosa su Claudio Martelli dandomi la sensazione che il suo vice segretario al partito avesse avuto un ruolo nella vicenda, mi disse: "Ne ricaverai sicuramente un danno, perché di certo io non sono l'editore, ma ti ringrazio".Ciuni rinunciò alla nomina. Al suo posto arrivò a Firenze da Bologna Tino Neirotti, che due anni prima per ragioni di equilibri interni di redazione a Roma non mi aveva voluto anche al Resto del Carlino, ma prima di accettare mi chiamò per dirmi che avrebbe rinunciato se io non fossi rimasto nel giornale fiorentino. Lo ringraziai della cortesia, tradottasi in un rispetto totale della mia autonomia professionale. Non ci fu una virgola toccata nei mei pezzi, un solo editoriale negatomi, una proposta non accolta. Ma l'anno ancora successivo quel galantuomo di Neirotti andò a fare il vice direttore al Corriere e a Firenze approdò davvero Ciuni. Che ebbi solo il tempo di salutare perché cambiai azienda. Da Tina non ebbi alcuna chiamata, né io avevo osato cercarla. Ci incrociammo solo una volta per strada e lei mi strizzò simpaticamente l'occhio.È l'ultimo, piacevolissimo ricordo che conservo di Tina Anselmi. Analogo solo a quello dell'allora presidente della Camera Nilde Jotti, che l'aveva voluta alla presidenza della commissione d'inchiesta sulla P2. E che quando, proprio nel 1985, mi furono assegnati sette giorni di arresti domiciliari per avere pubblicato due anni prima un documento sulle connessioni internazionali del terrorismo ostinatamente considerato coperto da segreto di Stato negli uffici della Procura di Roma, mi mandò a casa un motociclista con una lettera di solidarietà che mi commosse profondamente. Mi procurò una gioia superiore alla sentenza di proscioglimento, senza neppure il rinvio a giudizio, emessa con i soliti tempi della giustizia italiana: un anno dopo.Che donne, amici miei, ho avuto la fortuna di conoscere in politica. Un augurio che faccio, ma con un certo scetticismo, spero ingiustificato, ai tanti colleghi giovani che raccontano la politica di oggi.