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Davide Steccanella
«L’avvocato è un mestiere che, secondo alcuni, neppure dovrebbe esistere. Quante volte mi è stato infatti chiesto, con dissimulata malizia: “Come fai a difendere un assassino?”, o uno stupratore, un mafioso, un pedofilo o anche un bancarottiere, un poliziotto corrotto, un truffatore, aggiungo io. Il codice penale, come la vita, è ricco di figure “devianti”». È questa una delle prime riflessioni contenute nel libro “La giustizia degli uomini. Racconti di tribunale” (Mimesis edizioni, pp. 238, Euro 18) di Davide Steccanella, avvocato del Foro di Milano con quasi quarant’anni di esperienza professionale.
Tra i suoi assistiti Cesare Battisti e Renato Vallanzasca. «Il primo - scrive l’autore - è semplicemente l’emblema del terrorista mentre il secondo è semplicemente l’emblema del criminale, con buona pace del loro diritto a essere trattati e giudicati in modo giusto».
Avvocato Steccanella, nel suo libro c’è tanto di autobiografico. Un tributo a una professione che lei ama e che sta profondamente cambiando?
Io ho raccontato semplicemente quello che è capitato a me ed è tutto vero. Più che un tributo alla professione, il mio libro nasce dalla volontà di far sapere a chi non lo bazzica come funziona in Italia il sistema giustizia, perché ero stufo di assistere a continui processi in tv o sui media fatti da chi non ha mai messo piede in un’aula di tribunale. Ho pensato, se volete continuare a commentare i processi in corso seguendo la moda di quello che io chiamo nel capitolo iniziale il fenomeno del “panpenalismo”, ossia “l’irresistibile propensione a introdurre, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale e da qualunque osservazione degli effetti che le pene producono concretamente, nuove figure di reato al fine di soddisfare un sempre più diffuso giustizialismo di tipo popolare”, allora vi racconto cosa succede davvero tra quelle quattro mura.
Lei scrive in maniera provocatoria ma non troppo: “Chi preferisce pensare che in tribunale venga sempre accertata la verità assoluta, farà meglio ad abbandonare subito la lettura”. È il disincanto di chi indossa la toga da tanti anni?
Non è tanto un disincanto, spero di essere riuscito a trasmettere anche una certa fiducia nell’importanza della giustizia e che mai come in questo periodo percepisco come affievolita nella communis opinio, perché non è vero che, come diceva Bartali: “Gli è tutto sbagliato e tutto da rifare”. Però, è anche giusto sottolineare che, come titola il libro, la giustizia è amministrata dagli uomini, che sono per definizione fallibili, per cui non si deve pensare che il processo sia come un computer, dove, se inserisci determinati dati, il risultato è matematico. Una sentenza si basa sempre sulla “verità processuale”, ovvero su quanto le parti in contesa hanno allegato al giudice, e non sempre corrisponde a quanto è davvero accaduto nella realtà. Le sentenze vanno rispettate, ma è sbagliato ritenerle vangelo assoluto, tanto è vero che il nostro ordinamento consente alla parte soccombente di impugnarle in due successivi gradi di giudizio, uno di merito e uno di legittimità.
Diventare avvocato non è facile e, forse, rispetto al passato questa professione attira di meno. È altrettanto difficile conservare la toga sulle spalle?
Oggi il mestiere dell’avvocato, come molti altri peraltro, è molto cambiato rispetto a quando ho iniziato io. Ai miei tempi era fondamentale un bravo maestro che, come gli artigiani di una volta, ti insegnava l’arte nella bottega, e io da questo punto di vista sono stato molto fortunato a trovare sin da subito l’avvocato Lodovico Isolabella, che era non solo un grande avvocato ma anche un grande uomo. Soprattutto in città come Milano, il mercato impone a chi si affaccia alla professione di entrare in grandi studi all’americana aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, che forniscono un servizio completo ai propri clienti creando dipartimenti di esperti in ogni settore del diritto. Non dico che questo lo abbia reso più difficile, ma certo lo ha reso meno affascinante.
Il mito del singolo avvocato che sceglie di impegnarsi per garantire “giustizia” non esiste più neppure nel diritto penale, salvo poche eccezioni che proprio per questo meritano il massimo rispetto. Di recente ho letto un libro scritto dall’avvocato Gabriele Fuga, il quale, raccontando la propria esperienza di detenuto negli anni dell’emergenza terrorismo, a causa delle calunnie di un ex cliente “pentito”, disse ai propri giudici che un avvocato deve mantenere il segreto sulle confidenze fattegli dal suo assistito anche se queste potrebbero scagionarlo. Nel mio libro, oltre a Isolabella, cito alcuni grandi avvocati milanesi che ho avuto il privilegio di incontrare nel corso dei miei trentacinque anni di professione e che oggi non ci sono più, come Corso Bovio, Carlo Gilli, Angelo Giarda e Francesco Arata. Costoro hanno nobilitato la nostra professione, che non è fatta solo da “azzeccagarbugli” in cerca di soldi o facile notorietà.
La giustizia degli uomini, essendo tale, può spesso fallire?
Come racconto nel libro, in alcuni dei processi che ho affrontato è successo. Questo però non deve diventare un alibi per impegnarsi meno da parte dell’avvocato. Accettare di difendere qualcuno che ripone in te una tale fiducia da consegnarti in mano il destino della propria vita, affrontare un processo, soprattutto per chi non ci è abituato, è già una pena terribile ed è una responsabilità enorme. Da un tuo errore può dipendere la vita di un essere umano, quasi come per il medico, per cui ho fatto mio il motto che mi ha insegnato mio padre, a sua volta avvocato: “Fai quel che devi, accada quel che può”, però fai quel che devi, appunto, e se puoi fai persino di più. Per capirci, un avvocato deve fare cento per ottenere venti. Quasi sempre quel venti arriva. Tranne nei casi degli imputati “indifendibili” che racconto in uno dei capitoli finali del libro, e nei cui confronti, ho scoperto sulla mia pelle, non vale il motto: “La legge è uguale per tutti”.