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Abbiamo intervistato Olivia Ronen, l’avvocata francese che ha difeso Salah Abdeslam nel processo sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Tanti i temi toccati durante il colloquio, molti dei quali attuali anche in Italia: dal diritto di difesa al processo mediatico; dal ruolo del difensore all’ergastolo ostativo. Il processo sugli attentati del 2015 è stato recentemente raccontato da Emmanuel Carrére nel libro V13 pubblicato da Adelphi.
Cosa ha rappresentato, dal punto di vista umano e professionale, come avvocata poco più che trentenne, difendere Salah Abdeslam, il principale imputato nel processo?
Gli attentati del 13 novembre 2015 hanno fatto molte vittime e lo choc provocato in Francia è stato grandissimo. Salah Abdeslam, unico membro del commando rimasto in vita, è rapidamente diventato per l’opinione pubblica l’incarnazione stessa degli attentati. È quindi evidente che difendere quello che alcuni già chiamavano “il nemico pubblico numero 1” rappresentava una vera sfida. Mi sono naturalmente posta parecchie domande. “Ho abbastanza esperienza? Ho le spalle abbastanza forti per un processo del genere?”. Anche se avevo già accumulato una decina di processi e una ventina di pratiche in materia di terrorismo, avevo meno di 5 anni di tribunale quando sono stata formalmente nominata dall’imputato, alla fine del 2020 (10 mesi prima dell’inizio del processo). Ma ben presto ho dovuto accantonare queste domande, non c’era tempo da perdere. Dovevo organizzarmi, calarmi e assimilare quel dossier tentacolare di un milione di pagine e, soprattutto, trovare il modo di capire colui che dovevo assistere. Mi ha anche molto aiutato una riflessione del mio collega e amico di Università Martin Vettes, al quale avevo chiesto di affiancarmi in questo caso: mi ha fatto notare che nessuno, nemmeno un principe del foro con 30 anni di esperienza, aveva mai affrontato un tale processo, così lungo (10 mesi) e con migliaia di parti civili. Così, la nostra giovane età, che inizialmente mi sembrava un difetto, si è rivelata al contrario un vantaggio: ci assicurava la tenacia, l’energia, la voglia e forse anche quella dose di incoscienza necessaria per lanciarci in questa esperienza. E queste considerazioni hanno fatto venir meno le esitazioni.
Com'è stato il suo rapporto con Salah Abdeslam? Ha mai avuto dubbi prima di accettare l'incarico?
Quando incontro le persone che mi domandano di assisterle metto da parte i reati che gli sono contestati per cercare di vedere chi sono, di che pasta sono fatti. Tutto quello che mi interessa è sapere se riesco a far nascere tra noi un dialogo costruttivo. È stato così anche con Salah Abdeslam. Non sarei mai entrata in solo per il brivido di esserci. Dovevo essere in grado di capirmi con lui. E ho sentito, incontrandolo, che riuscivamo a parlarci. Ho allora intravisto la possibilità di costruire una difesa assieme a lui, nel rispetto della sua dignità e della mia indipendenza in quanto avvocata.
Come è avvertito in Francia – e come è stato avvertito in questo processo – il tema del diritto di difesa dei così detti imputati "indifendibili" accusati di crimini efferati? Lei e gli altri avvocati che hanno difeso gli imputati avete subito pressioni o minacce? In Italia è stato recentemente arrestato uno storico “boss mafioso”, Matteo Messina Denaro, e si è discusso anche di questo aspetto.
Io credo che di fronte all’opinione pubblica sia sempre utile ricordare alcune cose, quali il diritto di ognuno di essere difeso e ancora, in generale, il concetto di giusto processo. Durante questi 10 mesi è stato talvolta necessario fare opera di pedagogia, per far capire a tutti che le regole della nostra procedura penale trovano la loro ragion d’essere proprio nelle situazioni in cui avremmo più voglia di liberarcene. Mi aspettavo che avremmo subito un’ondata di odio o che saremmo stati oggetto di minacce. Invece, niente di tutto questo. Ho ricevuto numerose lettere d’incoraggiamento ed anche di ringraziamenti da persone le più diverse, sensibili alla difesa che stavamo conducendo. È stato inaspettato e molto gratificante. Durante le udienze siamo anche stati piacevolmente sorpresi dalla benevolenza delle parti civili nei nostri confronti. Molte di loro, in occasione della loro deposizione, hanno chiarito che capivano il nostro lavoro e ci hanno incoraggiato a fare del nostro meglio. È molto commovente vedere che persone toccate nella loro carne o nella loro anima avevano l’apertura di spirito necessaria per accettare e addirittura incoraggiare la difesa degli imputati.
Sempre a proposito del diritto di difesa, è presente anche in Francia la pratica distorta di confondere l'avvocato con il suo cliente e di confondere la funzione difensiva con la difesa del reato? Le istituzioni forensi sono dovute intervenire in questo senso con prese di posizione?
Mi ricordo di una volta, una sola volta durante un’udienza quando una parte civile si è rivolta a me, in modo aggressivo, dicendomi che “a scegliere male i miei clienti finivo per assomigliargli”. Mentre il mio collega Martin Vettes si è alzato per sostenermi, il Presidente della Corte non ha trovato niente da ridire e l’incidente è finito lì. Mi ricordo di aver trovato molto grave che nessun magistrato avesse preso la parola per ricordare il ruolo essenziale della difesa in un processo penale. Se posso certamente capire che una parte lesa non apprezzi il mio ruolo, non capisco però come l’autorità giudiziaria non senta il dovere di ricordare cosa è un processo in democrazia. Questo comunque resta un episodio aneddotico, che non riflette assolutamente la grande dignità trasmessa dalla stragrande maggioranza delle parti civili nelle udienze.
Che influenza ha in Francia – e che peso ha avuto in questo specifico caso – la straordinaria attenzione mediatica riservata al processo? Ha influito? In particolare, ritiene che la magistratura giudicante sia stata in qualche modo influenzata?
Si, ne sono convinta. Per la buona e semplice ragione che il verdetto che è stato emesso dalla Corte d’Assise speciale (composta, in materia di antiterrorismo, unicamente da magistrati professionali e non da una giuria popolare come avviene normalmente nei processi penali) è una decisione simbolica e non giuridica. Infatti, il verdetto è stato emesso a dispetto di numerosi principi cardine della procedura penale, come la presunzione di innocenza, l’onere della prova o ancora l’interpretazione stretta della legge. Questo lo abbiamo spiegato, assieme ad alcuni avvocati della difesa, in un dibattito uscito sul quotidiano Le Monde nel luglio 2022. Un tale disprezzo del diritto è difficile da spiegare se non con la volontà che la Corte ha avuto di conformarsi a quello che il pubblico poteva attendersi da questo caso.
Che strumenti hanno, in Francia, gli avvocati per tutelare i propri assistiti dalle conseguenze della giustizia mediatica?
Purtroppo, tutti incontriamo le stesse difficoltà di fronte al “tribunale mediatico”. Vediamo spuntare trasmissioni televisive composte da pseudo esperti che commentano i casi senza conoscere la realtà dei fatti, spesso senza nemmeno avere competenza di diritto. I social permettono poi il meglio come il peggio e le manifestazioni di odio sono molto facili. Da parte nostra, ci siamo sempre fatti un punto d’onore nel non stare a questo gioco. Le nostre argomentazioni erano riservate alla Corte, perché era in quell’aula che il processo si svolgeva, e non sui media. Nei 10 mesi di udienze siamo intervenuti in televisione solo 3 volte, il mio collega ed io, e solo quando ci sembrava che certi argomenti essenziali per la nostra difesa non passassero i muri della Corte. Anche se bisognava talvolta amplificare l’eco di qualche nostro messaggio o se si doveva rettificare alcune idee mal comprese all’esterno dell’aula d’udienza, abbiamo sempre mantenuto l’obiettivo di dare la precedenza nelle nostre azioni e reazioni alla magistratura.
Come è stato il rapporto con il Presidente della Corte e con i Pubblici Ministeri? Ci sono stati problemi legati al rispetto dei diritti degli imputati? Il Ministro Dupond-Moretti aveva dichiarato in un’intervista che «la sfida era rendere giustizia in conformità con le nostre regole, perché ciò che fa la differenza tra una civiltà e la barbarie sono le regole del diritto». È stato così?
Il nostro rapporto con i membri della Corte talvolta può essere stato teso, ma come può esserlo in un qualsiasi processo. Quello che mi ha invece sorpreso è il modo con cui il Presidente non ha vigilato sul rispetto delle regole d’udienza, credo per timore d’essere impopolare. Avveniva sistematicamente che non reagisse sia a fronte di domande parziali di membri della Corte sia a fronte di applausi del pubblico o ancora a fronte del comportamento di certi avvocati delle parti civili che ignoravano platealmente le più elementari regole del codice di procedura penale. È successo anche che il nostro microfono non fosse attivato quando domandavamo la parola per la difesa (dovevamo utilizzare il microfono per essere uditi dal pubblico, dalle altre sale nelle quali il processo era ritrasmesso e anche dalle parti civili che ascoltavano l’udienza da casa loro). Se pure ciò non ci ha impedito di formulare le nostre considerazioni o incomprensioni né di farle giungere alla Corte e agli altri attori di questo processo, pur tuttavia ha rappresentato una difficoltà. Un processo penale è un qualcosa di vivo nel corso del quale ciascuno deve poter essere ascoltato quando lo ritiene necessario, e non solo quando il Presidente lo concede. Io non penso che questo processo sia una vittoria dello Stato di diritto o della democrazia sulla barbarie. Uno Stato di diritto, per definizione, non mette da parte i suoi principi essenziali per giudicare, ma è quello che è successo in questo processo. Per quanto abbiamo denunciato queste deviazioni per tutta la durata del processo, non siamo stati ascoltati e ce ne dispiaciamo amaramente.
Salah Abdeslam è stato condannato alla pena più dura prevista dalla legge francese: un ergastolo con possibilità di libertà condizionale solo dopo 30 anni di detenzione. Che cosa pensa di questa pena? È un tema di cui si è discusso in Francia? In Italia è un tema ancora oggi molto discusso.
Salah Abdeslam è stato condannato al così detto “ergastolo incomprimibile”, il che significa che la sua pena è doppiamente blindata da una misura di sicurezza che impedisce ogni domanda di modifica. Così, potrebbe non essere mai in grado di chiedere di essere rimesso in libertà. Questo non è altro che una condanna ad una morte lenta. È interessante notare che quando in Francia abbiamo abolito la pena di morte nel 1981, è stato formalmente escluso che si introducesse una perennità “reale” che non prevedesse una vera possibilità di uscita. Badinter, il Guardasigilli di allora, aveva spiegato così la cosa: “non si sostituisce un supplizio con un altro supplizio”. Questa pena dell’ergastolo perpetuo però è stata introdotta nel codice penale francese nel 1994, in contrasto con questa idea essenziale. Come si può considerare giusta una pena che porta a creare dei “murati vivi”? Si può, dopo aver abolito la morte fisica, mantenere la morte morale? È un tema molto poco discusso in Francia, ma penso invece che un dibattito dovrebbe essere aperto.
Quali sono le condizioni di detenzione di chi, come Salah Abdeslam, è sottoposto a questo regime?
É necessario interrogarci sulle condizioni di detenzione eccezionali che abbiamo inflitto a questo detenuto. Abbiamo accettato di tenere Salah Abdeslam in isolamento completo per 6 anni, quando anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato come disumano e indegno un isolamento penitenziario che superi i 4 anni. L’interessato ha trascorso molte giornate senza dire una parola – malgrado le raccomandazioni del Comité de Prevention de la Torture (CPT) che prevede almeno due ore di contatti umani al giorno – senza accesso ad un luogo di moto e senza alcuna attività. Inoltre, in modo totalmente inedito (e in partenza illegale poiché tale possibilità non era prevista dal diritto) Salah Abdeslam è stato filmato all’interno della sua cella da due telecamere per 24 ore al giorno e 7 giorni alla settimana. Eminenti esperti psichiatri invitati a deporre presso la Corte d’Assise hanno parlato di condizioni di detenzione “delirogene”. In altre parole, lo Stato ha imposto una quotidianità che rende folli. So che non è mai semplice parlare delle condizioni di vita all’interno di un carcere e che c’è chi potrebbe essere tentato di dire che se lo è meritato. Ma è veramente questa la vittoria della democrazia sulla barbarie? Possiamo noi accettare che i nostri Stati creino delle condizioni di detenzione qualificabili come “tortura bianca”? Non lo credo. Io penso invece che i nostri regimi debbano battersi per non cedere a questa inclinazione naturale che privilegia l’idea di vendetta sulla dignità che si deve garantire ad ogni essere umano.