Il primo anniversario delle stragi del 7 ottobre 2023, che hanno provocato l’intervento di Israele sulla Striscia di Gaza, fa emergere un dato: le popolazioni civili sono sempre le più esposte in determinati scenari e quelle che pagano il prezzo più alto. Il diritto, negli ultimi decenni, è stato sacrificato in nome dei conflitti armati. Di questo è convinta anche Silvana Arbia, magistrata con una lunga carriera a livello internazionale. Ha ricoperto negli anni scorsi il delicato incarico di Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda.

«Il 7 ottobre 2023 – dice Arbia - si è consumata una strage che ha scosso profondamente le coscienze di tutti e di cui Hamas è responsabile. Ma non segna l’inizio di un conflitto di particolare tragicità, poiché tra Israele e la Palestina, i conflitti ripetuti e drammatici sono cominciati più di settanta anni fa, dal tempo dell’esodo forzato dei palestinesi nel 1948, che aveva causato un drammatico sconvolgimento, Nakba in arabo che vuol dire catastrofe, all’interno della popolazione araba palestinese, durante la guerra arabo- israeliana del 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele, con un esodo involontario di centinaia di migliaia di palestinesi, ai quali venne poi negato ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre, sia durante sia al termine del conflitto. Il 7 ottobre 2023, alla luce di quanto accaduto e di quanto accade, segna l’inizio della fase finale di un confronto dall’esito nefasto per entrambe le parti, e segna anche la negazione e il disprezzo per il diritto internazionale e per il diritto internazionale umanitario che vincola le parti in conflitto. Vi sono, in effetti, oltre ai trattati internazionali, delle norme internazionali di natura consuetudinaria inderogabili, tra cui il divieto dell’uso della forza per la soluzione di controversie fra Stati, la protezione dei civili e anche dei non combattenti nel corso delle operazioni militari, i principi di distinzione, di precauzione e di proporzione da seguire in azioni armate di difesa. Senza tralasciare l’obbligo di prevenire e o punire il genocidio e gran parte del diritto internazionale umanitario».

Nonostante l’evoluzione positiva del diritto internazionale, l’umanità si ritrova a dover fare i conti con immani tragedie. «Negli ultimi decenni – commenta Arbia - a fronte di un’evoluzione notevole del diritto internazionale applicabile ai conflitti armati internazionali e non internazionali, con particolare riguardo agli obblighi di protezione dei civili e dei non combattenti, nonostante l’esistenza e il funzionamento di giurisdizioni internazionali, atte a garantire il rispetto del diritto internazionale da parte degli Stati, come la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, e a punire gli individui responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani come la Corte penale internazionale, assistiamo non solo ad un cinico ritorno all’uso della forza e ad una irresponsabile crescita delle spese per gli armamenti più letali e non regolamentate, ma notiamo una sempre maggiore inosservanza di ordinanze e sentenze delle giurisdizioni internazionali che ne risultano svuotate di autorità. Se il diritto è disprezzato e la giustizia derisa, non rimane per le vittime di atrocità indescrivibili nei conflitti armati alcuna via per invocare ed ottenere giustizia».

Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, nei mesi scorsi ha chiesto l’emissione di un mandato di arresto per il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant. Analoga iniziativa per alcuni leader di Hamas, compreso Yahya Sinwar. La giustizia internazionale farà il suo corso. Anche Silvana Arbia è convinta di questo: «Le procedure iniziate avanti la Cpi continuano, non possono espletare effetti immediati perché sono procedure rigorose e la raccolta delle prove in una situazione come quella del conflitto Israele-Gaza e altri territori occupati è estremamente difficile. Inoltre, la Corte penale internazionale applica gli standard più elevati di garanzia della difesa, di protezione dei testimoni e di partecipazione delle vittime».

La risposta di Israele sulla Striscia di Gaza, dopo gli eccidi di un anno fa, ha indotto più di qualcuno a parlare di genocidio. Lo stesso è stato detto in merito agli eccidi di cittadini israeliani. Ma attenzione. Spesso la parola genocidio viene usata con un fine politico. «Lasciamo da parte – conclude Silvana Arbia - la diffusione dell’uso inappropriato, superficiale e o strumentale della parola genocidio, teniamoci alla sua definizione giuridica, contenuta nella Convenzione internazionale sulla prevenzione e la repressione del genocidio, che è un crimine internazionale e come tale deve essere definito nei suoi elementi costitutivi. Occorre provare che gli atti criminali sono commessi con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte uno dei quattro gruppi protetti, razziale, religioso, nazionale, etnico, in quanto tale.

La certezza sulla qualificazione come genocidio dei fatti di Gaza può essere data dalla pronuncia della Corte internazionale di giustizia nel merito, oggi pendente, essendo questa Corte stata investita dal Sud Africa per far dichiarare la violazione della suddetta Convenzione da parte di Israele, e per ottenere misure interinali che sono state disposte a partire dall’ordinanza del 26 gennaio dell’anno in corso, seguita da altra ordinanza del 28 marzo, con imposizione di ulteriori misure adeguate all’aggravarsi della situazione. La Corte aveva ordinato a Israele di porre in essere, senza ritardo, tutte le misure necessarie per prevenire e punire il genocidio dei palestinesi a Gaza, ritenendo sussistente la parvenza che tale crimine fosse stato commesso o si stesse commettendo».