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Beppe Grillo con due interventi ci ha offerto finalmente il suo programma. Nel primo si è pronunciato per l’espulsione dei clandestini dall’Italia. Nel secondo – citando Goffredo Parise – per la “povertà” e la decrescita come valore e come prospettiva di diversa modernità.
Difficile non provare simpatia per il pianto di Virginia Raggi, all’incontro con la Caritas di Roma. Il pianto in pubblico non è una vergogna o una debolezza: è un modo di comunicare. Finalmente questa contestatissima sindaca di Roma ci comunica qualcosa di comprensibile: la difficoltà, la paura di non farcela, il disappunto per gli errori. Finora sembrava chiusa in una gelida torre blindata, lontana dalla gente, dai problemi, dai programmi. Adesso sappiamo che c’è. Non se è brava, se avrà successo, se servirà alla città: però almeno sappiamo che c’è. E questo un pochino ci rassicura.
Ma il Movimento 5 stelle, a Natale, non ci ha regalato solo le lacrime tenere della Raggi. Anche un altra cosa, che mancava da tantissimo tempo: il proprio programma politico. Finora avevamo capito solo che il movimento proclamava l’esigenza dell’onestà e la necessità di demolire il vecchio sistema politico. Avevamo dei dubbi sull’ utilità di demolire un sistema politico senza averne a disposizione un altro, mentre apprezzavamo l’inno all’onestà, ma francamente ci sembrava un valore “debole”, se preso da solo, e non in grado di alimentare un programma di governo o di riforma.
Nelle ultime ore Beppe Grillo in persona, con due brevissimi interventi, ci ha offerto un programma politico – non so se di governo o solo di opposizione – che ha una sua solidità. Il primo intervento è stato quello nel quale si è pronunciato per l’espulsione dei clandestini dall’Italia, allineandosi su questo terreno alle posizioni della destra classica e in contrasto aperto col Vaticano. Il secondo intervento – illustrato da un bellissimo articolo di Goffredo Parise del 1974 – è stato quello a favore della “povertà” come valore e come programma.
L’idea che ci propone Grillo – attraverso l’analisi spietata e suggestiva di Parise – è quella di ricostruire l’Italia ripartendo dall’inizio, e cioè mettendo tra parentesi i risultati – positivi e negativi – della ricostruzione postbellica, del boom economico degli anni sessanta, e poi delle riforme degli anni settanta e della gestione per metà liberista e per metà socialdemocratica dei decenni successivi. Ripartire da zero mettendo in discussione tre elementi che sono stati nel Dna di questi settant’anni di storia nazionale: il consumismo, lo sviluppismo e l’omologazione.
La trasformazione che ci proponeva – quarant’anni fa – Goffredo Parise era un “ritorno indietro”. Attraverso una scelta di decrescita e di autarchia. Riduzione drastica dei consumi, redistribuzione delle ricchezze, appianamento verso il basso delle diseguaglianze, ritorno ai valori di una comunità contadina. Fine della predominanza dell’economia e della produzione di massa.
La filosofia politica della decrescita è tornata di attualità qualche anno fa – nei primi anni di questo decennio – quando le varie anime del movimento cosiddetto no- global si sono opposte frontalmente alla globalizzazione delle multinazionali ( che poi ha preso probabilmente una via molto diversa da quella che si era immaginato). Filosofi e politologi americani, sudamericani ed europei l’hanno studiata e predicata. Il più noto e il più completo probabilmente è il francese Serge Latouche. Ma l’idea anticonsumista non è nuovissima. In parte accompagnò lo sviluppo del sessantotto – arricchita persino da spinte di luddismo, e cioè di attività violenta volta a distruggere le macchine e le strutture dell’industria e quindi dello sviluppo – in parte, qui in Italia, diventò l’anima della politica del Pci berlingueriano, proprio negli anni immediatamente successivi a quelli nei quali scriveva Parise. La svolta fu sancita da un convegno importantissimo, organizzato dal Pci coi suoi intellettuali ( che allora erano la parte prevalente e anche la più potente dell’intellettualità italiana) nel gennaio del 1977 ( esattamente 40 anni fa) al teatro Eliseo di Roma. In quella sede il segretario del Pci ( poche settimane prima dell’esplosione del movimento giovanile che si chiamò, appunto, il movimento del ‘ 77, e che culminò con la cacciata dall’università di Roma, in febbraio, del capo della Cgil Luciano Lama) tenne un discorso nel quale proclamò la necessità, anche per la classe operaia, di fare sacrifici e di rinunciare ad alcuni lussi e a parte della propria ricchezza per diventare la guida di un processo di profonda trasformazione che avrebbe prodotto un “modello di sviluppo” diverso dal modello industrialista e capitalista.
Berlinguer concepì questa nuova linea politica – che camminò con gambe robuste dopo che la Cgil, in una famosa conferenza tenuta al palazzo dei congressi dell’Eur, fece prevalere al suo interno la linea dei “sacrifici”, che rovesciava la politica degli aumenti salariali dell’autunno caldo – anche per creare le condizioni di un accesso del Pci al governo ( accesso che non avvenne mai, anche se il Pci nel 1978– 1979 condizionò fortissimamente le riforme realizzate dal governo Andreotti, al quale, per la prima volta dopo il 1947, aveva concesso il voto di fiducia).
Lo scritto di Parise – che in parte riprendeva idee già espresse da Pier Paolo Pasolini – anticipava la svolta del Pci.
Era una ipotesi ragionevole di ingresso in una diversa modernità?
Le opinioni sono tutte legittime e ragionevoli. Grillo oggi si schiera per la ripresa di quella strada, autarchica e antiprogressista. Che taglia in due le ideologie di destra e sinistra, le esclude entrambe, e sfida l’establishment e anche la storia. E’ una buona notizia. Adesso sarà più semplice confrontarsi con l’onda grillina. Nei suoi aspetti di destra e in quelli di sinistra. E anche nel suo affascinante e rischiosissimo antimodernismo.
P. S. A me capita, ogni volta che dichiaro pubblicamente la mia idea “aperturista” sull’immigrazione, e cioè la richiesta di aumentare l’accoglienza e non di concentrarsi sulle espulsioni, di sentirmi dire, molto polemicamente: «Ma perché non te li prendi a casa tua, gli immigrati?». Non li prendo a casa mia per due ragioni: primo perché casa mia è piccola, secondo perché io non credo che la politica dell’accoglienza debba essere realizzata individualmente dai singoli cittadini, ma invece dallo Stato, anzi dagli Stati, anzi, meglio, dall’Europa.
Non credo che si possano contestare le idee di una persona imponendole di realizzare individualmente quelle idee prima di dichiararle. E’ una vecchia questione, che è stata sollevata tante volte negli ultimi secoli. Da quando i tribuni della plebe erano aristocratici...
Dunque non penso che Grillo prima di proclamare la necessità di diventare tutti poveri, debba diventare povero anche lui. Però non si può negare che un problema – come dire? – estetico, si pone. Non so quanto guadagni Grillo. L’ultima volta che ho letto una sua dichiarazione dei redditi è stato qualche anno fa, e quella dichiarazione diceva che in un solo anno Grillo aveva guadagnato – mi pare di ricordare – circa 4 milioni e mezzo di euro. Che è circa il triplo di quello che io – che non sono povero – ho guadagnato in quarant’anni di lavoro abbastanza duro. Beh...