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Sarà un vertice di maggioranza a sciogliere il nodo della riforma del Mes. Parola di Luigi Di Maio. In realtà non c'è più niente da sciogliere e probabilmente lo stesso Di Maio lo sa perfettamente. Come ha spiegato il ministro Gualtieri di fronte alle commissioni Finanze e Politiche europee del Senato, il Trattato non è modificabile e anche un rinvio non sembra plausibile.
Nella situazione data, tanto più dopo l'esposizione personale sia del premier che del ministro dell'Economia, negare la firma in calce al trattato innescherebbe probabilmente una tempesta perfetta su tutti i fronti: provocherebbe la crisi di governo in Italia, porterebbe i rapporti con Bruxelles vicini ai livelli minimi raggiunti dal governo gialloverde, innescherebbe una reazione a catena sui mercati, perché il rifiuto suonerebbe come ammissione della possibilità concreta di default a breve.
Quel che la maggioranza e i 5S stanno cercando, dunque, è essenzialmente una foglia di fico dietro la quale nascondere la resa e giustificare una firma che, in circostanze diverse, i 5S non concederebbero affatto.
Solo che anche la resa di Di Maio non sarà priva di conseguenze. I 5S iniziano a rendersi conto solo ora della portata del rovesciamento di posizioni imposto, sena neppure consultarli, proprio da Conte nella scorsa primavera. Gli scricchioli di Strasburgo, dove gli eurodeputati si sono spaccati nel voto di fiducia sulla nuova commissione, sono indicativi.
Le tensioni e il prevedibile smacco che dovranno incassare sul Mes accelereranno molto drasticamente il crollo della loro fiducia in Giuseppe Conte. La stessa poderosa offensiva lanciata dall'opposizione, già arrivata al tentativo di coinvolgere il Colle accusando il premier di aver tradito la Costituzione, mira più a massimizzare il danno per gli avversari che non a bloccare in extremis il semaforo verde dell'Italia alla riforma del Mes, missione quasi impossibile. La vicenda non è uno dei tanti ostacoli che la maggioranza si trova a dover affrontare a ritmo ormai quotidiano.
Chiama in causa la vera ragion d'essere di questo governo e rinvia direttamente alle dinamiche che hanno portato alla crisi di agosto e poi alla nascita del secondo esecutivo Conte. In giugno il Parlamento affidò al presidente del consiglio un mandato preciso: non appoggiare la riforma del Mes, per come si stava profilando. In effetti il presidente del consiglio non firmò niente, anche perché non c'era niente da firmare.
L'approvazione definitiva è fissata per il prossimo 13 dicembre, la firma vera e propria dei 19 Stati dell'Eurogruppo per febbraio e anche oltre. Conte puntò i piedi contro la richiesta olandese di mettere nero su bianco l'obbligo di ristrutturare il debito in caso di richiesta di prestito al Mes, il vecchio Fondo salvastati, ma la sostanza rimase quasi identica.
Su questa base, nonostante la mozione del Parlamento lo impegnasse in senso opposto, Conte approvò un testo che Gualtieri ha definito due giorni fa di fatto non emendabile. A questo punto le Camere si troveranno pertanto di fronte a una scelta secca, prendere o lasciare, con le conseguenze già descritte che la seconda opzione comporterebbe.
E' probabile che la manovra del premier sulla riforma del Mes vada inscritta in un progetto più ampio. Il mese dopo, infatti Conte offrì alla presidente von der Leyen i voti dell'M5S, determinanti per la sua elezione. Sin qui nulla di strano: entrambi i partiti di maggioranza si erano già detti propensi a votare la nuova presidente.
Il punto nevralgico è che Conte, a differenza di quel che sarebbe stato normale fare, non pretese dalla candidata, pur avendo il coltello dalla parte del manico, di muoversi in modo tale da permettere anche alla Lega di votarla così da non spaccare la maggioranza di governo italiana. Tanto meno subordinò il voto dei 5S alla compatezza della maggioranza.
Al contrario, accettò una linea di condotta opposta. La presidente, nel suo discorso, fece di tutto per rendere impossibile il voto a favore del Carroccio, nella certezza di poter comunque disporre dei voti pentastellati necessari per essere eletta. La crisi della maggioranza diventò irreversibile in quel momento.
Per la Ue, che considerava Salvini il nemico numero uno, la rottura della maggioranza italiana era auspicata. Conte avrebbe dovuto nutrire interesse opposto ma probabilmente si era già reso conto che la conflittualità tra Lega e 5S da un lato e quella personale tra lui e Salvini dall'altro rendevano la sua situazione, come premier del governo gialloverde a dir poco pericolante. La campagna europea di giugno e