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Passato per caso nei corridoi della Camera accanto ad un capannello di deputati del Pd non proprio entusiasti di Matteo Renzi, li ho sentiti lamentarsi della eccessiva “mobilità” del loro segretario. Che, precedendo un’intervista al Corriere della Sera ne aveva appena concessa una al Tg1 per rallentare la sua corsa verso le elezioni anticipate a giugno.
Il “giovanotto”, come lo chiamano gli avversari, non ha rinunciato del tutto al suo progetto, neppure dopo una telefonata con Giorgio Napolitano, fattagli per solidarizzare con lui dopo gli insulti rivoltigli dai leghisti, ma anche per cercare - inutilmente di mitigarne la contrarietà dichiarata, se non addirittura gridata, allo scioglimento anticipato delle Camere. Sarebbe - ha appena scritto il presidente emerito della Repubblica ai giornali del gruppo Monti Riffeser insistendo sull’argomento - l’ottavo ricorso prematuro alle urne, dopo i sette verificatisi fra prima e seconda Repubblica in sedici legislature.
Dei sette scioglimenti anticipati delle Camere lamentati da Napolitano, uno porta la sua firma al Quirinale: risale al 2008, quando la caduta del secondo ed ultimo governo di Romano Prodi si trascinò appresso le Camere elette solo due anni prima. Il capo dello Stato tentò la rianimazione con una esplorazione affidata all’allora presidente del Senato Franco Marini, ma non ci fu verso. Si dovette tornare alle urne, dalle quali uscì l’ultimo e tormentatissimo governo di Silvio Berlusconi.
Ora gli avversari di Renzi all’interno del partito sono infastiditi, ma un po’ anche allarmati, dai tentativi che sta facendo di tornare a dividere le minoranze offrendo loro le primarie al posto del congresso, che esse reclamano prima delle elezioni. Primarie che il ministro Dario Franceschini, componente decisiva della maggioranza nel Pd, ha definito “di coalizione”, pensando evidentemente alla designazione del candidato alla guida di una coalizione di centrosinistra, da consentire peraltro con un’apposita modifica all’ultima legge elettorale confezionata nella sartoria della Consulta, che prevede il pur improbabile premio di maggioranza nel primo e unico turno alla “lista” giunta al 40 per cento dei voti. Ma le primarie alle quali pensano, e che in un certo senso temono di più, le minoranze sono forse quelle per la definizione delle candidature ai seggi parlamentari, in grado quindi di attutire l’inconveniente dei capigruppo bloccati, destinati cioè all’elezione per designazione e scelta dall’alto.
Pier Luigi Bersani, tenutosi un passo e forse anche di più indietro a Massimo D’Alema, ormai lanciato verso la scissione, tanto da avere allungato la propria ombra anche sull’imminente congresso, a Rimini, di Sinistra Italiana incontrando Nichi Vendola e il candidato alla segreteria Nicola Fratoianni, per cui il capogruppo alla Camera Arturo Scotto si è ritirato dalla corsa, ha sorriso in televisione, ospite di Corrado Formigli a Piazza pulita, delle primarie e relativi gazebi. Egli ha parlato di “gazebrarie”. Ha sorriso anche, divertito, nel sentirsi riproporre un passaggio dell’ultimo discorso di D’Alema in cui Renzi era rappresentato come un matto da far portare via dagli infermieri, ma alla fine Bersani ha concesso al segretario del partito di considerarsi quello che altri gli contestano: un componente, a tutti gli effetti, dell’area del centrosinistra.
Alla luce di tutto questo si può capire il fastidio di quei deputati, diciamo così, critici che si dolevano nei corridoi della Camera della “mobilità” del segretario del partito. Che è evidentemente deciso a vendere cara la pelle politica, anche se ha finito lui stesso per mettersi terribilmente nell’angolo. E ciò specie quando- come deve avergli rimproverato amichevolmente al telefono Napolitano - ha motivato le elezioni anticipate anche col bisogno di impedire ai parlamentari di prima nomina, che sono più della metà di quelli uscenti, di maturare in autunno il diritto a quello che una volta si chiamava vitalizio ed è ora una pensione come le altre, da calcolare col sistema contributivo.
Il povero Napolitano - bisogna ammetterlo - aveva già diffidato Renzi durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale dall’inseguire Beppe Grillo sulla strada dell’anti politica e della demagogia, presentando per esempio il progetto del nuovo, striminzito Senato come l’occasione buona per ridurre le spese e le cadreghe.
L’insofferenza e le preoccupazioni degli avversari interni di Renzi di fronte ai suoi rallentamenti nella corsa alle urne, e persino alla disponibilità estrema a rinunciare del tutto alle elezioni anticipate per fare il congresso - spera lui - una buona volta per sempre, senza rimetterne in discussione gli effetti subito dopo, com’è accaduto all’indomani di quello del 2013, appartengono tuttavia alle proteste che una volta Eugenio Scalfari contestò a Bettino Craxi. Erano gli anni delle spallate del leader socialista alla supremazia dei comunisti nella sinistra italiana. L’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer naturalmente resisteva e organizzava difese e contrattacchi. E il direttore della Repubblica commentò talune reazioni stizzite di Craxi paragonandole a quelle di Tecoppa. Che era ed è una famosa maschera meneghina, impegnata in teatro a riempire di improperi l’uomo che riesce a sottrarsi ai suoi tentativi di infilzarlo. “Perché non stai fermo? ”, grida il guappo in versione ambrosiana.
Ora, visto il numero degli avversari di Renzi, di Tecoppa da richiamare in servizio e deridere non ne basterebbe certamente uno. Ce ne vorrebbero a decine.