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Espansione del paradigma vittimario: ne parliamo con il professor Vittorio Manes, ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna.
Professore, intervenendo all’Inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione Camere penali, ha detto che “dietro la fabbrica dei reati c’è la fabbrica delle vittime”. Cosa intendeva rappresentare?
Da molti anni è stato evidenziato che viviamo nel “tempo delle vittime”: la “vittima” è ormai l’” eroe contemporaneo”, ed ha ormai sublimato i vecchi argomenti dell’ordine pubblico e della difesa sociale per giustificare, con la sua carica ansiogena ed emotigena, ogni opzione incriminatrice, e catalizzare le più disparate istanze punitive, con cui si replica – quasi con un riflesso pavloviano – ad ogni irritazione sociale. Ogni giorno vengono forgiate nuove vittime, e queste sono straordinari fattori propulsivi per l’espansione ormai senza limiti dell’intervento repressivo dello Stato. Il fenomeno #metoo, la violenza di genere e il codice rosso – un cantiere perennemente in progress – ne sono testimonianza tangibile, ma è una tendenza ben più generale e diffusa.
Il professor Giostra in un convegno disse: «Avete notato che “giustizia è fatta” si dice solo quando c’è una condanna?». Concorda con questa riflessione?
Secondo Hobbes, la condanna assomiglia alla giustizia più che l’assoluzione. E del resto, sappiamo tutti che le vittime, e le parti civili, non chiedono giustizia, ma chiedono condanna. Il processo penale, di fronte al crescente protagonismo della vittima, rischia di perdere la sua neutralità. Per Beccaria, la vittima doveva essere estromessa dal processo, e la pubblicizzazione del processo penale significava al contempo ostracizzare ogni forma di vendetta privata. Mentre nel processo penale liberale non vi sono né vincitori né vinti, nel processo penale contemporaneo, polarizzato sul ruolo acromegalico assegnato alla vittima, l’assoluzione degli imputati viene vissuta come un fallimento, e solo la condanna viene vista come un successo, perché riconosce le ragioni di una vittima che si presume tale sin dall’inizio. Tutto ciò è molto pericoloso: perché di fronte ad una vittima in pectore, e prima che il giudizio sia celebrato, il processo da “obbligazione di mezzi” si trasforma in “obbligazione di risultato”, ed il giudice, in balia di questo “baccanale di emozioni”, invece di decidere liberamente, deve dire da che parte sta, se dalla parte della vittima, appunto, o dalla parte dei carnefici, se arriva a giudicarli, eventualmente, innocenti.
Quali possono essere le conseguenze sul processo dell’abuso del paradigma vittimario, frutto del diritto penale emozionale e compassionevole?
La mia impressione è che il processo penale, che con le sue regole e le sue forme ha tradizionalmente anche il compito di razionalizzare e de- emotivizzare il conflitto, si stia trasformando in un rito per solidarizzare con le vittime, a cui spesso si tende ad attribuire – non solo nella narrazione mediatica - una autorità morale indiscutibile. Questa curvatura victim- oriented innesca “effetti di trascinamento” negli ambiti più disparati: si pensi alla valutazione della prova, dove le dichiarazioni della persona offesa sono spesso accreditate di una attendibilità sostanzialmente indiscutibile, visto che la parola della vittima si corrobora da sé. Oppure allo spazio crescente che va guadagnando l’istanza civilistico- risarcitoria, anche a scapito dei criteri penalistici che dovrebbero presidiare ogni accertamento in sede penale: una inclinazione tanto accentuata che le Sezioni Unite dovranno a breve decidere se in caso di reato colpito da una prescrizione maturata dopo la sentenza di condanna in primo grado, il giudice debba valutare la sussistenza del “danno da reato” in base al rigoroso criterio penalistico imposto dalla regola Bard, ossia l’oltre ogni ragionevole dubbio, ovvero – con una contaminazione a mio sommesso avviso improvvida - in base al più blando criterio civilistico del “più probabile che non”.
A partire dal caso Grillo, si parla molto di vittimizzazione secondaria. Le difese degli imputati vengono attaccate perché svolgono semplicemente il loro lavoro, ossia vagliare la credibilità della presunta vittima durante quella che dovrebbe essere la cross- examination. Che ne pensa?
L’esame incrociato della persona offesa, in taluni processi, è un passaggio vertiginoso, doloroso, ma inevitabile; e durante il controesame, come si sa, deve essere vagliata la credibilità del teste, con domande “libere” che possono essere anche molto scomode, crude, dirette; domande che un avvocato – nell’esercizio del mandato difensivo – ha il dovere di fare, specie nei reati di violenza sessuale, dove la persona offesa è il teste principale, e si discute sul consenso o meno al rapporto sessuale. Ovviamente sta alla sensibilità del singolo trovare un giusto equilibrio tra esercizio del diritto di difesa e rispetto della dignità della persona, e non trasformare la cross- examination in una gratuita vessazione della persona offesa, tanto inutile quanto inammissibile.
Lei ha scritto un libro sul processo mediatico: anche per noi giornalisti è diventato difficile parlare di “presunta vittima” in quei casi, perché siamo accusati di non credere alla parte offesa. Eppure abbiamo la responsabilità di una narrazione del processo oggettiva e rispettosa della presunzione di innocenza.
Questo punto è cruciale. Salvo casi eclatanti dove le responsabilità sono autoevidenti o confesse, prima del processo, e di una sentenza definitiva di condanna, non esiste alcuna vittima, ma solo una “possibile” vittima. Il problema è che la mediatizzazione della vicenda processuale edifica una “presunta vittima” prima del processo, sine iudicio, istituendola e sacralizzandola come tale agli occhi della comunità. Da questo ruolo è difficile tornare indietro, anche per la stessa vittima: se lo fa, anche solo modificando la propria versione, può subirne effetti deteriori, che spesso esitano in ustionanti episodi di victim blaming, altrettanto irrazionale e fuorviante quanto la sua celebrazione.
In Commissione al Senato sta passando sotto silenzio una modifica della Costituzione che si compone di un solo articolo: «1. All'articolo 111 della Costituzione, dopo il quinto comma, è inserito il seguente: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”». Qual è il suo parere in merito?
Bisognerebbe riflettere molto prima di inserire una disposizione come questa, che peraltro appare del tutto inutile, essendo implicita e consolidata nella potestà punitiva affidata allo Stato. Il processo che gli illuministi volevano, per così dire, victim neutral, e che già ora è victim oriented, diventerebbe sempre più victim driven, trainato dalla vittima e dalla sua carica emotigena. Possiamo solo immaginare il passo successivo: aggiungere a questa previsione, o magari ricavarne in via ermeneutica, altri corollari, come un generalizzato obbligo di “lotta all’impunità”, o persino il diritto di ottenere la punizione del reo in capo alla vittima, il right to punishment: un definitivo congedo dal modello reocentrico a favore del modello vittimocentrico, e dal modello liberale di diritto penale, che – come ben mette in luce un saggio recente di Gabriele Fornasari - non riconosce nella pena l’unica risposta al reato, né nella punizione l’unica forma di compensazione delle vittime.