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Il riccio e la volpe, ovvero la finestra ( radio) per uscire dalla logica della emergenza Non di rado le emergenze funzionano come il negativo delle fotografie che si scattavano prima dell’arrivo della macchina digitale: la foto- grafia, insomma la scrittura con la luce, dell’oggetto della fotografia avveniva esattamente “per contrario” rispetto al calco del negativo. Oscurate le dinamiche di vita che si erano consolidate, spesso perdendo la loro allure originaria e mantenendo il deplorevole piglio difunzionale all’insieme ma talvolta confortevole per i più singolarmente presi, e ne trarrete il contrasto: una energia, sopita, silenziosa e spesso mai guardata bene in faccia, che viene in superficie – “emerge” appunto – e, per un sorprendente gioco chiaroscuro, si fa non solo vedere, si fa sentire!
Quella fotografia è stata scattata da quando è iniziato il lockdown. Governare nell’emergenza è durissimo, periglioso e incerto. Ma governare il rischio e l’incertezza dopo l’emergenza è il terreno su cui si misura la leadership, prima istituzionale che politica. Sono giorni in cui le promesse si susseguono, in cui si annunciano soluzioni a problemi urgenti, problemi serissimi che affliggono la nostra società e la nostra economia. Sono giorni in cui si mette mano al fondamento del vivere insieme, un fondamento silenzioso che pero’, quando si è voluto dargli il suo nome, lo si è chiamato contratto sociale. Cosa tiene insieme il sistema Italia? Cosa tiene insieme gli italiani e le italiane al di là delle regioni con diversi tassi di rischio, diversi modelli di governance sanitaria, diverse aspettative di leadership politica, diverse abitudini di vita, diverse adesioni alla centralità del potere, diversi ambienti climatici, diversi tassi di particolato nell’aria, diverse “cosi tante cose”? Cosa tiene insieme tutto questo? Perché qualcosa ci deve pur essere, visto che il sistema Italia reagisce: no, anzi, agisce, perché in queste lunghissime settimane il sistema Italia ha agito. Lo ha fatto proprio in quella parte che senza la fotografia dell’emergenza forse sarebbe rimasta all’oscuro, lontano dallo scarto riflessivo che è necessario quando si parla di esperienza, di fare propria l’esperienza di qualcosa e poi saperlo, e saperlo anche dire, saperne valorizzare il portato e l’insegnamento. Ebbene sono state le persone che hanno agito: lo hanno fatto in spazi angusti, perché quando c’è poco tempo, c’è poco spazio, qualsiasi cosa se ne dica nella società globalizzata dove il mondo è diventato piccolo come un fazzoletto. Lo hanno fatto senza potere fare progetti, hanno fatto fatti, il primo fatto che apre una finestra sul secondo fatto a venire senza che il terzo a seguire fosse cosi chiaro sin dall’inizio. Perché non si ha tempo di programmare quando è tutto urgente. Lo hanno fatto inventandosi forme di libertà interiore o riguadagnandola laddove la avevano dimenticata, lo hanno fatto con la postura di chi sa che in tempi di emergenza le azioni dell’altro diventano esempio e catena, diventano creatività e scoperta, e questo moltiplicato n volte significa avere il senso del noi.
Adesso è venuto il momento di governare il rischio e l’incertezza nel dopo emergenza. Ed è tutta una altra storia, ma nello scriverla questa storia sarebbe bene non dimenticarsi delle storie precedenti, quelle che abbiamo scritto con la macchina fotografica stampando il negativo e facendo emergere l’energia. Qualche giorno fa in uno degli straordinari frammenti di tempo generosamente dedicati dal personale del sistema giustizia ad un viaggio in un cosmo a due voce, il riccio e la volpe, è emersa l’espressione “vertigine del cambiamento”. Non so se sia stata una creazione collettiva, forse pronunciata da una persona, ma quando si viaggia non è poi tanto importante a chi sia venuta l’espressione. Era una bella espressione. La vertigine del cambiamento è quella che si sente quando si cammina su un filo teso e non si sa bene come si fa a stare in piedi. Pero’ il cambiamento è nelle cose e quindi non si puo’ evitare. Anzi è già in fieri. Forse il malaise della vertigine si cura con lo sguardo del riccio? Isaiah Berlin ci direbbe che quello sguardo rischia di essere totalizzante, Ronald Dworkin contro- argomenterebbe che è lo sguardo del riccio ad offrirci una postura capace, sul piano del valore, di trovare la bussola. Sarebbe utile in tempi di vertigine... o forse sarebbe meglio curare il malaise della vertigine con lo sguardo della volpe? più aderente alla realtà e dunque preferibile, direbbe Berlin, ma anche frammentata e troppo legata al contesto specifico direbbe Dworkin.
Nelle mattine passate alla radio con chi opera nel sistema giustizia lo sguardo del riccio e quello della volpe si incontrano. Si dovrebbero incontrare e tenere insieme anche nella azione di governo. Per leadership istituzionale. Abbiamo bisogno di sottoscrivere un contratto sociale che parta dalle capacità di “essere noi” che i cittadini hanno dimostrato, che ne rispetti il senso della libertà nel rispetto delle libertà altrui, abbiamo bisogno di un contratto sociale che non utilizzi la scrittura delle regole con la stessa frequenza con cui si reagisce senza programmare alla emergenza. Abbiamo bisogno di scelte che si iscrivono in un percorso lungo, dove la promessa non è quella del fare le promesse, ma la promessa è di stare dentro alle regole scritte. Ogni reazione avuta in queste settimane porta dentro di sé un riccio ed una volpe, uno sguardo, questo secondo, legato all’esigenza di fare subito, magari non benissimo, ma subito, attingendo a quello scuro che la fotografia dell’emergenza ha portato alla luce, e uno sguardo, il primo, che già nutre di un senso di durata, perché le soluzioni migliori restino e perché valgano le esperienze fatte.
Ogni settore lo potrebbe dire di sé. Ma forse proprio in questi giorni non è privo di una qualche valenza corale il dirlo per la giustizia. Nella vertigine del mettere insieme l’urgenza della risposta, la comprensione esperta del problema della giurisdizione, la resistenza all’osservare miope e la frammentazione delle voci, esiste un potenziale: una energia che chiede di essere riconosciuta e portata nella logica del governare adesso, domani, dopo, già facendo il passo di oggi avendo in mente il dopodomani. Governare il rischio e l’incertezza senza indulgere alla logica reattiva e di corto respiro. Abbiamo bisogno di un respiro lungo, profondo, per guardare avanti senza vertigine, ancorati alla forza dell’esperienza che i tanti operatori del mondo giustizia ( ma non vale lo stesso nel mondo della scuola, dell’università, della sanità?) hanno fatto. Loro lo sanno, lo sappiano anche le istituzioni che governano il viaggio verso il domani. Basta inventare regole nuove, basta aggiungere soluzioni su soluzioni. Tracciamo la rotta. Ci troveremo li’.