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Giorgio Benvenuto lo riconosce senza imbarazzi, nonostante per una vita si sia trovato dalla parte opposta del tavolo: «Sergio Marchionne ha fatto riscoprire alla Fiat le sue origini: un’azienda che parla piemontese, ma che sa che il futuro è nel mondo globalizzato». L’ex segretario generale della Uil, che con Bruno Trentin e Pierre Carniti fu tra i principali interpreti della stagione sindacale degli anni sessanta e settanta, ricorda così l’azienda che più di tutte rappresenta il cuore industriale del Paese e l’uomo che ne ha rivoluzionato i connotati.
Perchè la Fiat non è mai stata un’azienda come le altre, in Italia?
La Fiat non è mai stata solo un’azienda, ma l’azienda. Quella più grande, tanto da generare una migrazione quasi biblica dall’Italia meridionale a Torino. Partiamo dalle dimensioni: ricordo ancora i manifesti pubblicitari dell’immediato dopoguerra, con la scritta “Terra, cielo, mare”. La Fiat, infatti, non produceva solo automobili, ma anche navi e grandi motori, era presente nell’aviazione e nel settore dei veicoli industriali e per l’agricoltura. Si trattava di un’azienda con un indotto enorme, e molte im- prese di questo indotto erano a loro volta di sua proprietà. All’epoca, un posto di lavoro alla Fiat era considerato sicuro come quello di chi lavorava nel pubblico impiego e la sua grande espansione ha prodotto un vero e proprio esodo dal sud. Insomma, la Fiat era il simbolo stesso del capitalismo e ogni questione che la riguardasse diventava centrale anche per il Paese. Del resto, si ripeteva un motto: “Quello che va bene per la Fiat, va bene per l’Italia”.
Ed è stata anche la scuola del sindacalismo per il settore metalmeccanico.
Tutti noi ci siamo formati con la Fiat. Per ripercorrere le tappe del sindacato, bisogna partire dalla fa- se turbinosa del dopoguerra, quando si sperimentò la prima unità sindacale, ma la stessa non resistette all’urto della Guerra Fredda e la Cgil si divise, con la nascita di Cisl e Uil. All’epoca la Fiat era amministrata dal ragionier Vittorio Valletta, il quale fece una netta scelta di campo, scegliendo la contrapposizione forte con i comunisti e i socialisti e di fatto discriminando la Cgil e la Fiom all’interno delle fabbriche. Io ero ancora un ragazzo, ma lo ricordo come un periodo di rottura drammatica, in cui la Fiat puntò sulla divisione sindacale, negoziando i contratti di lavoro solo con la commissione interna.
Quando entrò in crisi questo meccanismo?
Quando in Italia nacque il centrosinistra. Dopo la rivoluzione in Ungheria la situazione internazionale cambiò, iniziò una fase di distensione che culminò nel 1963, quando i socialisti entrarono nel governo, con l’esecutivo guidato da Aldo Moro. Il Paese stava cambiando, iniziava la presa di coscienza dei diritti e molti giovani entrarono a far parte del movimento del lavoratori. Ecco, in quel primo governo di centrosinistra, l’Italia iniziò a porsi il problema dei diritti dei lavoratori e la discriminazione nei confronti della Cgil in Fiat non poteva più essere accettata. Iniziarono contestazioni e scioperi e si ricostituì il rapporto unitario dei sindacati metalmeccanici.
La Fiat seguì il vento di cambiamento che attraversò il Paese durante quella fase?
Cambiò più che altro il modo di guardare al futuro dell’azienda. Negli anni Sessanta, la Fiat aveva ancora tutti i dirigenti che parlavano piemontese, per così dire, avevano grande affetto per Torino e guardavano soprattutto alla dimensione italiana. Con l’espansione, però, si capì che si trattava di un raggio troppo stretto: in quegli anni, Valletta siglò un accordo con l’Unione Sovietica, per costruire una fabbrica Fiat a Togliattigrad, nonostante politicamente la Fiat si fosse sempre scontrata coi comunisti. Poi l’attenzione si spostò sulla Spagna, sulla Francia con il tentato accordo con la Peugeot e poi verso l’America Latina. La visione era cambiata: alla Fiat prima che altrove si capì che la sopravvivenza dell’azienda stava nella sua internazionalizzazione. Un’intuizione, questa, che prese piede soprattutto sotto la ge- stione di Gianni Agnelli e poi, nella fase recente, è stata portata avanti da Sergio Marchionne.
La prospettiva dell’azienda italiana per antonomasia smette di essere l’Italia?
Esatto. Aneddoticamente, le racconto che, quando nel 1966 Gianni Angelli sostituì Valletta alla presidenza, organizzò una riunione dello staff per esporre i problemi dell’industra automobilistica e tenne il suo intervento in inglese. All’epoca, la maggior parte dei dirigenti erano italiani e quasi nessuno parlava inglese. Al termine, Agnelli disse: “Cari amici, d’ora in avanti parleremo di strategie in inglese e chi non sarà in grado di farlo, è meglio si trovi un altro posto di lavoro”. In concreto, l’Avvocato capì prima degli altri la necessità che la Fiat si collocasse a livello mondiale, con una visione internazionale dei problemi e il respiro di una multinazionale. Per questo, oggi, fa sorridere la critica sul fatto che il nuovo manager non sia italiano: è un giudizio che appartiene al passato. Perchè una multinazionale dovrebbe essere gestita con criteri di nazionalità?
Marchionne ha camminato sui passi di Agnelli, quindi.
Marchionne ha capito queste intuizioni e accelerato il processo per renderle strutturali, da ultimo con la creazione di Fca. Con lui, la Fiat è tornata alle origini, rifiutando la visione provinciale di un capitalismo fu presa da Guido Carli, dallo stesso Angelli e poi da Luca Cordero di Montezemolo. Per quel che riguarda la politica, la Fiat ha sempre avuto un principio: l’azienda discute con chiunque governi e non è mai antigovernativa. In quest’ottica si muoveva tutta la famiglia Agnelli, con Gianni senatore a vita, il fratello Umberto nella Dc, la sorella Susanna ministra degli Affari esteri del governo Dini. Questa prassi, però, è venuta meno quando il governo italiano ha perso potere nei settori rilevanti: oggi, l’Italia non decide più da sola ma le scelte si prendono nel mercato globale, nelle sedi della finanza e in Europa. Di conseguenza, è diminuita l’attenzione della Fiat nei confronti della politica italiana.
Con il sindacato, invece, che rapporto c’è stato?
Dopo la fase divisiva gestita da Valletta, Agnelli ha voluto impostare le relazioni nell’interesse di conservare l’unità sindacale. Anche durante la drammatica rottura della marcia dei 40mila, pur essendo di fatto contro le posizioni del sindacato, l’Avvocato non ha mai cercato la rottura. Marchionne ha seguito la strada dell’unità, ma si è mosso in una situazione politicosociale molto diversa.
In che senso?
Lui era convinto che non si potessero risolvere i problemi con una visione nazionale, inoltre avvertiva che Confindustria e il governo italiano erano deboli e che le confederazioni sindacali avevano perso autorevolezza rispetto al passato ed erano profondamente divise tra loro. Per questo, quando nel 2010 si pose il problema dell’accordo sui contratti - accettato da Uil, Fim e dai sindacati autonomi ma rifiutato dalla Fiom - Marchionne non si accontentò ma si rivolse direttamente ai lavoratori, con un referendum.
Eppure fu molto attaccato per la scelta di far votare direttamente i lavoratori, che però si espressero in favore del sì all’accordo.
Lui probabilmente aveva capito qualcosa che non sempre il sindacato è riuscito a interpretare: il pensiero dei lavoratori. Negli anni Settanta, noi avevamo una fortuna: le sigle sindacali andavano insieme, anche con idee diverse. Noi parlavamo coi lavoratori e li facevamo votare: era fondamentale per avere il polso della situazione. Questo contatto lo perdemmo con la marcia dei 40mila, nel 1980 ( la famosa marcia dei “quadri” contro il sindacato, ndr) e fu la storia a darci la sveglia, perchè a Torino ci trovammo isolati. Marchionne questo lo ha capito: non riuscendo a parlare con tutto il sindacato, ha parlato direttamente coi lavoratori.
Cosa ha insegnato quella sconfitta?
In quell’occasione Marchionne fu chiaro: disse che il suo compito era far sì che l’azienda andasse bene, che gli azionisti guadagnassero e che i lavoratori fossero sicuri, ma aggiunse che lui non si poneva il problema dell’Italia e di Torino come invece faceva Agnelli. Secondo la sua visione, nella globalizzazione non ci sono fratelli ma solo concorrenti. Insomma, lui ci ha opposto la sua forza internazionale e mostrato come in Fca non esista una visione comune. Basti il fatto che, anche volendo, sarebbe impossibile indire una riunione con tutti i sindacati che operano intorno alla multinazionale.
Il sindacato ha un problema di rappresentatività, quindi?
È il grande tema del presente: il sindacato deve continuamente verificare la sua rappresentatività e smetterla di ragionare con i canoni del mondo di ieri, perchè altrimenti le risposte che sarebbe chiamato a dare vengono trovate in altri modi.
Tra le critiche mosse al sindacalismo degli anni Settanta, c’è anche quella della troppa ideologizzazione nel confronto.
Non la trovo corretta. C’erano, questo è vero, delle minoranze rumorose che appena si parlava della Fiat avevano il riflesso pavloviano di utilizzare solo il paradigma della lotta di classe, ma l’approccio della dirigenza è sempre stato diverso e più concreto. Noi dovevamo fare i contratti di lavoro, non la rivoluzione, e le trattative erano estenuanti, ma andavano concluse. Ricordo che io, Carniti e Trentin avevamo una tecnica quando si alzava il livello dello scontro. Trentin era il più intellettuale dei tre, così spettava a lui telefonare ad Angelli per blandirlo, facendo leva sulla sua vanità di sentirsi l’ultimo superstite di una sorta di nobiltà sabauda. Alla fine, l’Avvocato cedeva sempre: grazie a questa capacità diplomatica nello scavalcare i blocchi di Federmeccanica, riuscimmo a chiudere molti contratti.
Un sindacato che portava risultati pratici, quindi?
Un sindacato autorevole e non retorico, capace di proporre e non solo di difendere. Le faccio un esempio: quando la Fiat decise di raddoppiare lo stabilimento di Rivalta, a Torino, noi ci opponemmo e scioperammo. Il problema del Mezzogiorno era forte e noi ottenemmo che gli stessi denari venissero investiti negli stabilimenti al Sud. Un’operazione straordinaria anche se dimenticata, che fece il bene anche della stessa azienda.
E oggi, che prospettive vede?
Io penso che oggi il sindacato abbia un’occasione straordinaria. Ha dalla sua parte una presenza radicata sul territorio, forza organizzativa ed ecnonomica. È fondamentale, però, che il sindacato torni a far discutere i lavoratori, facendo proposte e non solo dando opinioni. Quarant’anni fa era più difficile perchè c’erano i grandi partiti, ma oggi, nel vuoto che lo circonda, ci sono praterie per intervenire e proporre visioni non difensive. Mi colpisce che, quando sento parlare un sindacalista che viene dalla sinistra, la parola d’ordine sia “difendere i lavoratori, le donne, i giovani”. Ma perchè non riscoprire il passato? Noi dicevamo “valorizzare il lavoro, le donne, i giovani”. Il sindacato dovrebbe uscire da quest’ottica difensiva, perchè il mercato fa il mercato, ma il sindacato deve dare valore alle persone, costringendo l’economia a considerarle una priorità.
Anche questo Marchionne l’aveva capito?
Guardi, di lui oggi mi piacerebbe ricordare una lettera che mandò ai lavoratori Fca e che mi sorprese molto. Scrisse che nella vita ci sono tre categorie di persone: quelle che domandano cosa è successo, quelle che chiedono chi è stato a far succedere le cose e quelli che fanno succedere le cose, e invitava i lavoratori ad appartenere a quest’ultima categoria. Sa perchè mi sorprese? Questa frase è un vecchio motto dei sindacalisti del Novecento che Trentin, Carniti e io utilizzammo spesso nella Flm, la federazione unitaria: ci serviva nei momenti di sconforto, per combattere la rassegnazione.