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«Anche una sola vittima del lavoro infligge al corpo sociale una ferita non rimarginabile». Le recenti parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ben evidenziano il dramma e la gravità delle morti sul lavoro. Gli ultimi dati ufficiali forniti dall'Inail (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) riportano, per il 2016, 1.018 denunce di incidenti mortali sul lavoro, registrando un calo del 13,1 % rispetto all'anno precedente. Non tutti i lavoratori, tuttavia, trovano posto nelle statistiche. Ne discutiamo con Franco Bettoni, presidente dell'Anmil (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro), operante in Italia da oltre 70 anni. Presidente Bettoni, cosa ne pensa delle iniziative legislative formalizzate dai senatori Barozzino (Sel) e Casson (Pd) e finalizzate all'introduzione nel Codice penale del reato di omicidio sul lavoro? Personalmente ritengo che il nostro codice penale sia già completo sotto il profilo delle fattispecie di omicidio e lesioni per inosservanza delle norme antinfortunistiche. Tuttavia l'iniziativa dei senatori mi sembra apprezzabile nella misura in cui rende più rigido il quadro delle tutele in materia e delinea una fattispecie di reato ancor più specifica. Gli ultimi dati forniti dall'Inail riguardanti gli incidenti mortali sul lavoro nel 2016 registrano 1018 denunce; da essi tuttavia sono esclusi, oltre a categorie come poliziotti e vigili del fuoco, anche i lavoratori in nero... Noi dell'ANMIL abbiamo più volte sottolineato il fatto che le statistiche INAIL non sono esaustive dell'intero fenomeno infortunistico, in quanto circa 2 milioni di lavoratori (quasi il 10% del totale) non risulta assicurato all'INAIL. Si tratta di varie categorie che hanno comunque una propria forma di tutela assicurativa ma comprendono attività ad alto rischio, soprattutto nel settore pubblico (in particolare Forze dell'ordine, forze armate, vigili del fuoco ecc.). Per questi lavoratori non risulta siano mai stati diffusi dati sugli infortuni dai rispettivi Enti e pertanto sfuggono alle statistiche ufficiali dell'Inail. Altrettanto si può dire per i lavoratori in nero: secondo stime ISTAT il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza delle unità di lavoro (ULA) non regolari sul totale, è pari al 15,7%, che corrisponde a circa 3,5 milioni di lavoratori. Anche questi, ovviamente, non rientrano nelle statistiche ufficiali e, di conseguenza, è materialmente difficile che vengano allo scoperto. Alcuni anni fa l'Inail stimava circa 130.000 infortuni l'anno occorsi a lavoratori in nero. Ritiene che l'Ispettorato Nazionale, istituito attraverso un decreto del governo in linea con il Jobs Act, possa risultare una misura sufficiente all'emersione del sommerso e alla lotta all'evasione contributiva? Noi riteniamo che sia un primo passo che si propone di uniformare e coordinare le azioni di contrasto al sommerso che finora venivano effettuate da soggetti diversi e poco comunicanti fra loro, evitando peraltro anche possibili sovrapposizioni, e ottimizzando le scarse risorse impegnate. In definitiva riteniamo che non sia ancora una misura sufficiente ma, nello stesso tempo, creare sistema contro l'irregolarità ci sembra un’idea che va nella direzione giusta. Perché, anche se rappresenta una quota cospicua della nostra economia, il sommerso va combattuto con tutti i mezzi e da tutti, lavoratori e datori, in quanto è un fenomeno che danneggia indistintamente. I casi di incidenti sul lavoro non mortali, quando il lavoratore offre la propria prestazione in nero, sfuggono alle statistiche più di quelli mortali. Secondo lei è possibile arginare il preoccupante fenomeno del sommerso e tutelare gli interessi di questa larga fetta di lavoratori 'invisibili'? Questa domanda compendia sostanzialmente quanto ho affermato nelle risposte precedenti: è facile che un infortunio di lieve gravità non venga denunciato per svariati motivi, sia da parte del datore di lavoro che cerca di evitare l'aumento del premio (malus) sia per il lavoratore che, in questi tempi di crisi e di carenza di lavoro, cerca di non inimicarsi il datore di lavoro e, non è infrequente, che quest’ultimo "inviti" il lavoratore a non sporgere denuncia. Da parte mia ritengo che si possa e si debba fare molto di più per contrastare il lavoro nero con maggiori azioni ispettive mirate ed incisive che cerchino di riportare il fenomeno a limiti fisiologici, poiché purtroppo non credo si possa debellare del tutto, quindi parlo di quello che presenta caratteristiche e dimensioni assolutamente patologiche. È d'accordo con Susanna Camusso della Cgil, secondo cui salute e sanità non sono più al centro delle dinamiche contrattuali? Io credo che salute e sanità solo in parte non siano più al centro della contrattazione nella misura in cui l'asse, per queste tematiche, si è spostato dal Ccnl ai contratti di secondo livello, aziendale e territoriale, con il welfare aziendale, al cui centro vi sono soprattutto salute, benessere e sanità per il lavoratore e la sua famiglia. In tal senso vanno senza dubbio le leggi di stabilità 2016 e 2017, e se guardiamo poi al recente rinnovo del Ccnl metalmeccanici, vediamo come anche il contratto nazionale ha riacquistato centralità sul tema del benessere e della produttività. Cosa ne pensa delle odierne iniziative di contrasto agli abusi della legge 104/1992? Contrastare l’utilizzo di benefici di qualsiasi tipo da parte di chi non ne avrebbe diritto ed impedirne l’uso distorto è fondamentale per conservare la loro funzione ed utilità sociale. In questo senso non posso che condividere le iniziative che mirano a monitorare l’utilizzo dei permessi 104 e a mantenerli nell’ambito per cui sono stati istituiti, ovvero l’assistenza ad un familiare in condizioni di disabilità grave. Proprio in questi giorni si parla molto di un possibile inasprimento dei controlli, soprattutto nel settore pubblico. Il mio augurio è che una maggiore attenzione possa far emergere vere situazioni di irregolarità, a vantaggio dei tanti lavoratori che, invece, impiegano i permessi in modo onesto e per reali esigenze. Interessante è una recente Sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato come truffa l’utilizzo di permessi retribuiti per ferie personali, riconoscendo al tempo stesso al lavoratore il diritto di organizzare l’assistenza secondo orari e modalità flessibili purché essa sia effettivamente prestata nell’arco della giornata di permesso. Una novità in controtendenza rispetto a quello che era l’orientamento fino ad ora manifestato dalla stessa Cassazione, la quale ha chiarito che i permessi devono consentire a chi svolge il gravoso compito di assistenza di potersi anche dedicare a tutte le attività che non sarebbero possibili qualora l’intera giornata fosse dedicata prima al lavoro e poi alla cura del familiare. Non ferie, quindi, ma un prezioso strumento di valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.