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Francesco Greco, presidente del Consiglio Nazionale Forense
«Giusto processo: si cerchi di comprendere bene il senso dell’espressione. C’è giusto processo se il difensore è nelle condizioni di svolgere appieno la propria funzione, di vederla riconosciuta. Non si tratta solo di equilibrio fra magistratura e avvocatura. C’è qualcosa di più. C’è il valore della giustizia nelle democrazie vere, nei sistemi democratici in cui è affermata la piena civiltà del diritto: in un Paese come il nostro, l’avvocato non può essere considerato una banale pedina, un attore che può esserci e non esserci, e che, soprattutto, può essere sostituito da chiunque. L’avvocato è una figura di stretta fiducia della persona coinvolta nel processo e, se possibile, non deve essere sostituito, non è intercambiabile, perché solo la conoscenza di quel processo e dei diritti di quella persona assicurano la piena giustizia. Il giusto processo, appunto».
Francesco Greco ha vissuto nei primi giorni da presidente del Cnf l’emozione suscitata nell’opinione pubblica dal caso di Ilaria Salamandra, la penalista che si è vista negare il legittimo impedimento nonostante fosse chiamata ad assistere un figlio piccolissimo, di appena due anni, costretto a sottoporsi a un esame strumentale. Ci sono stati sentimenti anche di contrasto fra avvocatura e magistratura. «Ma qui si tratta proprio di superare le contrapposizioni, le diffidenze che una parte della magistratura sembra coltivare nei confronti di noi avvocati, e affermare la piena parità fra le parti del processo. Ci arriveremo. E ci si arriva con la riforma costituzionale che riconosce la funzione insostituibile dell’avvocato».
Presidente Greco, a volte la freddezza dei giudici nei confronti degli avvocati, disconoscimenti come il rigetto del legittimo impedimento per l’avvocata Salamandra, sembrano riflettere l’inesorabile distanza fra chi come il magistrato è dipendente pubblico, ed è dunque “garantito”, e chi come l’avvocato è un libero professionista, con tutti i rischi che la condizione comporta.
Non credo si tratti di questo. C’è qualcosa che riguarda il senso del processo nel nostro paese e in generale nella civiltà giuridica universalmente intesa. È come se alcune parti della magistratura nutrissero una forma di diffidenza verso noi difensori. Il che però si spiega solo con una non profonda consapevolezza del ruolo dell’avvocato nel processo. Non si può ipotizzare un processo senza difensore, la cui funzione è essenziale. Un magistrato può arrivare alla diffidenza nei confronti del difensore solo nel momento in cui sottovaluta i principi normativi che regolano il processo e i principi fondamentali dell’ordinamento.
E com’è possibile che si arrivi a una banalizzazione del genere, a un atteggiamento così burocratico e indifferente?
E guardi, io non posso che confermare tutta la sorpresa di fronte a casi come quello della collega Ilaria Salamandra. Se di fronte a una avvocata madre che chiede il legittimo impedimento perché chiamata ad assistere un figlio piccolo in ospedale la risposta del giudice è “tanto ti fai sostituire”, allora proprio non si comprende che il difensore non è un difensore qualsiasi ma quel particolare avvocato con il quale l’assistito ha instaurato un rapporto di fiducia. Avvocato che conosce i fatti, li ha compresi nel dialogo con la persona assistita, e che è il solo in grado di occuparsi compiutamente di quella causa, di quel giudizio, penale, civile o amministrativo. Ecco, non mi stancherò mai di dirlo: noi, intendo noi come avvocatura e come Cnf, dobbiamo batterci per questo, per far comprendere che non si può celebrare un processo senza l’avvocato e che non si può rinunciare a quell’avvocato con cui la persona ha stabilito un rapporto. Il che naturalmente comporta anche una responsabilità da parte nostra.
A cosa si riferisce in particolare?
Alla necessità, che noi segnaliamo sempre ai colleghi, di essere puntualmente e profondamente informati sulle carte processuali, di dotarsi dell’adeguata competenza, perché appunto la responsabilità che ci assumiamo è elevatissima. Nello stresso tempo insisteremo sulla necessita di superare la considerazione sbagliata che alcuni magistrati hanno del ruolo dell’avvocato nel processo. E guardi che una simile battaglia comporta anche la necessità di riconsiderare alcune recenti riforme.
Si tratta delle novità introdotte nel civile e nel penale con le leggi Cartabia?
Sono riforme che marginalizzano chiaramente il ruolo del difensore. E provocano quindi un arretramento nel sistema dei diritti, che trovo preoccupante. Deve essere chiaro un principio: il sistema democratico si basa sulla piena possibilità di tutela nel contesto giurisdizionale. Se si introducono meccanismi che mettono in discussione l’accesso a una piena tutela dei propri diritti, non si colpisce semplicemente il sistema processuale civile o penale: si mettono direttamente in discussione i principi di democrazia e libertà.
Adesso l’espressione “efficienza del processo” sembra invece un narcotico che consegna questi principi all’oblio.
E non è assolutamente tollerabile. Andrebbe ricordata un’altra cosa: limitare gli avvocati nel libero esercizio della loro attività è tipico dei regimi totalitari. Perciò è assolutamente necessario affermare l’idea che, in un sistema a democrazia compiuta qual è il nostro, l’avvocato ha un ruolo non marginale, ma centrale. D’altronde, si tratta di una consapevolezza ben radicata in tante figure di primo piano della nostra magistratura: la settimana scorsa, come Ufficio di Presidenza del Cnf, abbiamo incontrato la prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano, dalla quale abbiamo ascoltato un ampio e convinto riconoscimento del ruolo del difensore. Eppure c’è ancora, nell’ordine giudiziario, chi percepisce la propria funzione e quella del difensore in una logica di contrasto.
In realtà la magistratura proprio ora dovrebbe sentirsi in sintonia con le preoccupazioni dell’avvocatura, considerato che anche il giudice rischia di veder burocratizzato il proprio ruolo.
Ci sono le recenti riforme di Cartabia. Ma si dovrebbe ricordare che già da alcuni anni il nostro legislatore tende a incanalare il processo in forme di burocratizzazione. Da una parte, le ultime modifiche introducono una così fitta serie di inammissibilità, obblighi e adempimenti da sviare di fatto l’avvocato rispetto al pieno svolgimento del proprio ruolo. Basta un’inezia e ti trovi con un errore procedurale che, in base alle nuove regole, preclude il riconoscimento di un diritto. Dall’altra parte anche il magistrato rischia di perdersi nel verificare affannosamente che le parti abbiano rispettato ogni minimo adempimento, e finisce per smarrire la valutazione globale del processo. E come può, in un quadro simile, realizzarsi il giusto processo? Come si garantisce la tutela dei diritti se di fatto l’avvocato non è nelle condizioni di sottoporre al magistrato tutti gli elementi utili a compiere una valutazione il più corretta possibile?
Lei si riferisce in particolare alla griglia di preclusioni e inammissibilità di cui è costellato il nuovo rito civile.
Ma guardi che nel penale non ci si è risparmiati, quanto a preclusioni che contraddicono il principio di tutela dei diritti. Basti ricordare l’obbligo di rinnovare il mandato per poter impugnare una sentenza: tutti coloro che hanno un difensore d’ufficio, e in particolare gli imputati contumaci, di fatto non possono accedere al giudizio d’appello. Se l’avvocato, come si verifica nel processo contumaciale, non è in grado di mettersi in contatto con l’assistito, quell’imputato perde il diritto a impugnare una sentenza: si può parlare di tutela dei diritti pienamente garantita?
Torniamo al senso di contrapposizione che alcuni magistrati percepiscono rispetto all’avvocatura: crede che la riforma costituzionale sul rilievo dell’avvocato metterebbe fine una volta per tutte a questo atteggiamento?
Il riconoscimento dell’avvocato in Costituzione è un passaggio fondamentale nel percorso che deve edificare davvero, in Italia, il giusto processo.
Perché solo così si riconosce la pari dignità con i magistrati?
Più precisamente, perché solo così realizziamo un equilibrio pieno fra le parti del processo, in particolare nel processo penale. Si deve riflettere su una cosa: il pm e il giudice sono colleghi fra loro e sono costituzionalmente riconosciuti, l’avvocato è estraneo a questo rapporto di colleganza e non è esplicitamente riconosciuto in Costituzione. Se si mette a fuoco un quadro del genere, si comprende perfettamente come solo una riforma costituzionale che riguardi l’avvocato possa realizzare il giusto processo. Pm, difensore e giudice devono trovarsi sullo stesso piano in quanto tutti riconosciuti dalla Costituzione. È chiaro. Solo così il diritto alla difesa e alla tutela dei propri interessi, ossia l’articolo 24, e il processo basato su un contraddittorio che si svolge nella parità fra le parti, l’articolo 111, si traducono in realtà.
Ma può darsi che un caso, disarmante e sconcertante, come quello dell’avvocata a cui è stato negato il legittimo impedimento con un figlio da assistere in ospedale, radichi nell’avvocatura una più profonda consapevolezza dell’urgenza questa riforma? In altre parole: pensa che nell’avvocatura ancora non vi fosse unanime coscienza dell’importanza di un riconoscimento costituzionale?
Guardi, intanto posso dirle che la vicenda umana della collega di Roma ha suscitato una solidarietà incondizionata, corale, in tutta l’avvocatura. E le dico che anche molti magistrati hanno sperimentato lo stesso sentimento: semplicemente, non potevano dirlo in pubblico. Sì, è chiaro che una vicenda del genere diffonde con forza, nell’avvocatura, la consapevolezza che l’avvocato in Costituzione è necessario. È possibile che in passato non tutti i colleghi avessero fatto propria questa idea. Ora naturalmente si tratta di serrare le file dell’avvocatura in modo da arrivare al risultato.
È una sfida che va condotta contemporaneamente nell’unità dell’avvocatura e nel rapporto con la politica.
Abbiamo incontrato il presidente della commissione Giustizia della Camera, l’onorevole Ciro Maschio: abbiamo rivolto l’esortazione a riprendere il percorso della riforma. Che è, ripeto, la riforma del giusto processo. Incontreremo tutti i gruppi parlamentari in modo da sensibilizzarli, favorire la ripresa dell’iter e portarlo a compimento. E per arrivarci faremo in modo che il percorso coinvolga tutta l’avvocatura, che l’intera avvocatura lo supporti. Come Cnf, convocheremo tutti i presidenti degli Ordini, tutte le associazioni forensi generaliste, i componenti forensi dei Consigli giudiziari, affinché l’obiettivo sia condiviso da tutta l’avvocatura, unita e determinata nel perseguirlo. Ecco, mi riferivo a questo quando, già nel primo giorno da presidente del Cnf, ho detto che l’avvocatura deve saper parlare con una voce sola.
Così forse un caso Salamandra non si verificherà mai più.
Mi dà l’occasione di segnalare un altro obiettivo prioritario, che chiama in causa il dialogo privilegiato fra Cnf e Csm: riguarda le nostre colleghe in gravidanza oggi costrette a presentarsi in udienza fino al giorno prima del parto. Intendo discuterne con il Consiglio superiore, ricordare l’intangibilità del diritto a ottenere il rinvio per legittimo impedimento legato alla maternità. Ma non si tratta solo di affermarlo presso la magistratura: intendo coinvolgere anche Cassa forense, nel senso di andare oltre l’indennità attualmente prevista. La collega in gravidanza non gode dell’astensione obbligatoria sancita per una lavoratrice dipendente, ma proprio per questo si deve pensare a destinarle un’ulteriore forma di sostegno. I diritti, in una democrazia compiuta, sono la base di tutto. E questo vale anche per i diritti delle avvocate.