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«C’è una nuova sfida per l’avvocatura, dettata da un cambio di paradigma: non ci si confronta più con la norma nella sua formale definizione dettata dalla legge, ma con il diritto sancito dal modo in cui la norma vive nell’interpretazione. Di più: l’interpretazione è offerta da una giurisdizione che trovo corretto definire ormai multilevel. E che è non solo nazionale ma anche sovranazionale, con uno scambio continuo fra le due Corti europee e la nostra Coste costituzionale, oltre che fra la nostra Corte e ciascun giudice. Ebbene, confrontarsi con un simile livello di complessità richiede una formazione più ampia per l’avvocato, sia sul piano geografico che dal punto di vista qualitativo e contenutistico».
Giovanni Maria Flick non ama appassionarsi ai temi imposti dall’agenda setting e il suo profilo di studioso potrebbe sembrare sfuggente. Eppure la sua apparente dissonanza dal mainstream ha in realtà sempre una ricaduta molto concreta. Perché l’idea di novità e di necessario cambiamento che il presidente emerito della Consulta suggerisce agli avvocati fa da premessa a un punto d’arrivo tutt’altro che astratto: «Proprio per la complessità del compito a cui il difensore è chiamato dai nuovi diritti e dalla loro oggettiva minore connessione alla forma della legge, è giusto ribadire e affermare il diritto del professionista al riconoscimento anche economico della propria opera. Un riconoscimento che deve essere, secondo la nostra Costituzione, proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto e in grado di assicurare un’esistenza decorosa al lavoratore. Perché, vorrei lo si ricordasse, l’avvocato è un lavoratore».
Presidente, intanto il passaggio dalla semplice interpretazione del dettato formale della legge alla necessità di conoscere il diritto affermato dalla giurisprudenza impone un grado di formazione molto più elevato.
Appunto. Ci si deve districare tra fonti diverse. Non solo italiane: si deve essere in grado di seguire e conoscere le interpretazioni offerte rispetto a un determinato diritto dalla Corte di giustizia del Lussemburgo come dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Così come si deve essere in grado di districarsi nella dialettica a volte conflittuale fra tali giurisdizioni sovranazionali e la nostra Corte costituzionale. Oltretutto l’avvocato collabora al formarsi di quella giurisprudenza, non più solo nazionale, attraverso l’interpretazione che offre con la propria attività difensiva e che fa da sostegno a quella prodotta dal giudice.
Come si è arrivati a una simile rivoluzione?
Concorrono più ragioni. Non va escluso l’indebolirsi delle istituzioni parlamentari, la loro ridotta capacità di intervenire prima che arrivi il riconoscimento di nuovi diritti in sede giurisdizionale. La radice del fenomeno è però anche nell’assenza di una Costituzione in diversi Paesi membri della Ue, dove quindi non può esistere il fattore della conformità alla Carta nazionale. Inoltre, visto che in Europa non siamo riusciti ad avere una politica fiscale comune ma un diritto comune invece lo abbiamo, va tenuto conto del fatto che il diritto comunitario guarda più alla sostanza che alla forma del dettato normativo.
Bene. Ma tutto questo è positivo?
Non lo si può certo dire in termini assoluti. Siamo di fronte a una crisi del principio di legalità e a una dimensione nuova non ancora assimilata né dagli ordinamenti né dagli operatori della giustizia. Teniamo conto che alcuni conflitti tra giurisdizioni sono stati risolti non senza fatica solo grazie al dialogo tra le Corti: per esempio sulla prescrizione, che la nostra Corte costituzionale ritiene appartenga al diritto sostanziale e che invece la Corte di giustizia di Lussemburgo considerava un istituto solo processuale, le cui eventuali modifiche possono dunque essere applicate anche a un procedimento penale in corso.
Ma l’avvocatura dovrebbe battersi contro la tendenza a delegittimare le istituzioni parlamentari?
L’avvocatura, oltre che alla difesa del singolo, è chiamata senz’altro a contribuire al buon andamento della giustizia. Il che però non può portarci a ritenere che debba impegnarsi politicamente per riabilitare le istituzioni legislative. L’impegno civile è prerogativa di tutti, non specificamente degli avvocati. Certo è indiscutibile che la professione forense abbia un interesse a che il principio di legalità viva nella forma più chiara possibile, ma non si può dire che questo impegni l’avvocatura a riabilitare i Parlamenti. Ben altro è il principio di sussidiarietà in base al quale l’avvocato, nel difendere il diritto della persona, deve sapersi reggere su un equilibrio che preservi la tutela di tutti i diritti.
Ecco: quindi la responsabilità, rispetto alla giurisdizione e ai diritti, si ingigantisce ancora: il che però non richiederebbe di recuperare una maggiore dignità nella condizione economica dell’avvocato?
C’è una tendenza ad attrarre le libere professioni verso l’ambito dei servizi all’impresa, sulla base del principio della libera concorrenza. Ma l’avvocatura a questo deve reagire, deve rifiutare un simile schema e deve farlo insieme con le altre libere professioni.
Concorrenza vuol dire inevitabilmente corsa al ribasso nei compensi.
Ma appunto la difesa dei diritti non è solo produzione di un servizio dietro corrispettivo, quindi non può basarsi semplicemente sulle leggi della concorrenza. E i Consigli dell’Ordine non sono associazioni temporanee di imprese: hanno compiti di tutela e di presidio sul piano disciplinare, del controllo sui propri iscritti e della loro formazione. E da questo punto di vista la legge professionale forense contiene indicazioni inequivoche, per fortuna richiamate in sede europea dalla Corte di Giustizia, sulla base della Carta di Nizza.
Eppure a fine 2017 l’Antitrust intervenne pesantemente mentre l’esame parlamentare della legge sull’equo compenso professionale era ancora in pieno svolgimento.
Dubito che avesse l’autorità di intervenire su una legge nella fase della sua gestazione. Credo debba limitarsi a sollecitare un giudice affinché sollevi l’eventuale questione davanti alla Corte costituzionale. Al momento, alle autorità indipendenti non è ancora stato riconosciuto il potere legislativo.
Ma l’Antitrust italiana ha ancora sponde nell’Ue?
Certamente nella Antritrust europea. Ma come detto la Corte di Lussemburgo, sull’assimilazione della professione legale ai servizi all’impresa, ha rettificato il tiro. Ricondurre l’avvocato alla logica delle imprese è inaccettabile, pur considerato l’equivoco consolidatosi all’epoca in cui tutte le libere professioni avevano un carattere prevalentemente elitario. Ora gli Ordini devono difendersi con lo svolgimento delle loro funzioni in modo da rivalutare il carattere liberale di ciascuna professione, che nel caso degli avvocati si traduce non nell’erogazione di un servizio ma nella difesa dei diritti.
Oltre alle autorità Antitrust, a volte a confondere i due piani sono i compensi al ribasso stabiliti dalle pubbliche amministrazioni.
E io trovo insensata, per esempio, l’affermazione per cui un certo contributo professionale non ha bisogno del compenso perché assicura pubblicità. Invece l’avvocato va retribuito: il principio della dignità del lavoro è affermato in Costituzione, prevede che il compenso debba essere adeguato al lavoro svolto e l’avvocato è un lavoratore come gli altri. Il cosiddetto caporalato intellettuale offende la dignità di tutti. Lo si contrasta se si rimette in moto la discussione, finora osteggiata dall’Antitrust, sul rigore deontologico e sui minimi di compenso, che deve comunque essere dignitoso.