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Di Giuliano Vassalli, l’ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick è stato prima allievo nelle vesti di avvocato e apprendista in quelle di professore, poi successore al ministero della Giustizia e infine ne ha preso il posto come giudice della Corte Costituzionale. Un percorso quasi parallelo lungo una vita, che ha permesso a Flick di leggere in filigrana anche la riforma cui Vassalli ha dato il nome e che traghettò il processo penale italiano nel sistema accusatorio.
Professore, cosa le insegnò il Vassalli avvocato?
Fui con lui in uno dei processi più importanti che patrocinò, il processo Lockheed, il primo e unico processo che si svolse per reati ministeriali davanti alla Corte Costituzionale. Di lui avvocato ricordo soprattutto la rigida linea di moralità: da lui imparai soprattutto un certo modo di intendere e svolgere la professione, provando e non accusando. La stessa che, da professore, lo portò a studiare in particolare il rapporto tra Costituzione e diritto penale e, da giudice costituzionale, gli fece approfondire il ruolo della difesa nel processo e l’aderenza del diritto di difesa ai valori della Carta. Un percorso esemplare: dalla resistenza da cui è nata alla Costituzione, alla difesa intransigente di quest’ultima a palazzo della Consulta.
Da ministro del governo Prodi, lei prese in mano Via Arenula proprio dopo qualche anno della sua riforma del codice di procedura penale.
In quegli anni il mio rapporto con lui fu sempre molto stretto e mi ispirai parecchio alle sue indicazioni, sempre lucide e puntuali. Nel mio mandato, tuttavia, mi occupai soprattutto di migliorare le condizioni strutturali dell’amministrazione della giustizia: dalle condizioni delle aule all’assunzione di personale, fino all’eliminazione delle sedi superflue. Mi dedicai più all’organizzazione della giustizia che alla riforma del processo.
Non pensò mai alla necessità di una ulteriore riforma, intorno alla quale esistevano perplessità?
Sì, nei miei incubi notturni. Anche perchè era necessario dare tempo al nuovo codice per trovare un punto di equilibrio. Inoltre, esistevano troppe tensioni politiche e troppe singole istanze di modifica disorganiche per anche solo pensare di fare una nuova riforma generale dopo così poco tempo. D’altra parte la stessa legge delega per il codice prevedeva un triennio di possibili interventi di riforma.
Come valuta, a distanza di trent’anni, la riforma Vassalli?
Le rispondo in questo modo: Vassalli fu un grande ministro, che ebbe la capacità e l’umiltà di predisporre uno strumento tecnico che consentisse di rompere con il conservatorismo del passato e di condurre il paese nel passaggio dal sistema inquisitorio a quello accusatorio, che doveva offrire maggiori garanzie non formalistiche all’imputato. La riforma fu una profezia bella e nuova, ma non venne del tutto capita e dunque nei lavori di aggiustamento emersero come funghi alcune distorsioni.
Distorsioni di che genere?
Modifiche disorganiche, che hanno prodotto un maldestro matrimonio tra diritto sostanziale e diritto processuale: nonostante la riforma del codice di procedura penale, il codice di diritto penale sostanziale è rimasto inalterato provocando una forte discrasia tra il momento strumentale del processo e quello sostanziale del diritto. Per questo è impossibile dare un giudizio positivo o negativo della riforma, ma si possono solo analizzare i punti di problematicità che hanno sconvolto il quadro pensato da Vassalli.
Proviamo ad elencare questi punti problematici.
Il primo sono le modifiche non organiche, introdotte senza un quadro globale di sistema. Questi interventi hanno dissestato il codice, perchè sono stati guidati dalle esigenze politiche e contingenti del momento e sono nati con un errore di fondo: hanno pensato il processo in funzione dei delitti e il diritto in funzione del processo. Le faccio un esempio attuale: l’aumento delle pene per alcuni reati, in modo da poterli far rientrare tra quelli intercettabili. Oppure l’aumento stratosferico delle pene per impedire che un reato venga prescritto, come fa la Spazzacorrotti. O, ancora, l’aumento delle pene per dare un segnale “emblematico” che per altro rimarrà privo di effetti. Questo modo di procedere, negli anni, ha trasformato il codice in un vestito di Arlecchino.
Cosa altro?
La Corte Costituzionale inizialmente è intervenuta in modo felpato, poi ha iniziato ad usare l’accetta. In particolare, anch’essa ha seguito una linea non del tutto coerente; ad esempio ha trasformato le norme a tutela della terzietà del giudice in un mosaico non ben coordinato. In tutto questo non ha aiutato nemmeno l’irruzione del cosiddetto “multilevel”, ovvero i provvedimenti delle corti sovranazionali, come la Cedu e la Corte di giustizia europea. Entrambe, a mio avviso, sono intervenute nel sistema penale italiano in modo un po’ prevenuto. Per esempio, con le pesanti richieste di modifica della disciplina in materia di ergastolo ostativo.
Come mai questa diffidenza nei confronti dell’Italia?
Io credo che noi paghiamo la nostra tradizione più formalista. Se per altri paesi europei il principio di legalità si fonda sull’interpretazione della norma da parte del giudice, nell’ordinamento italiano il principio di legalità si fonda sulla fonte della norma, dunque sulla legge. Questo rende più complicato e più formale, per noi, il rapporto tra il momento processuale e quello di diritto sostanziale.
Col senno di poi, tuttavia, l’esigenza da cui nacque il codice Vassalli era corretta?
Sì, perchè esisteva la necessità di superare il sistema inquisitorio, in cui tutto era deciso dal giudice e la difesa rimaneva a guardare, sparando dopo le sue cartucce contro quanto era già maturato nell’istruttoria del giudice e del pm ( si pensi alle polemiche per estendere le garanzie di difesa dall’istruzione formale a quella sommaria). Nel processo accusatorio, invece, le parti lavorano e combattono con pari strumenti, da posizioni contrapposte. Oggi, tuttavia, si può notare una conseguenza non voluta di questa riforma.
Quale sarebbe?
Oggi in Italia il sistema rischia di diventare carcerocentrico, con un diritto penale del nemico: si capovolge l’impostazione tradizionale del processo, in cui prima avviene l’accertamento di un fatto di reato, da valutare nella sua riconducibilità a una norma giuridica; poi c’è la fase di esecuzione della pena, che ha al centro la persona. La Spazzacorrotti fa esattamente il contrario: la fase di accertamento avviene nei confronti della persona, giudicando il corrotto e non il fatto corruttivo. Il fatto, invece, emerge nella fase dell’esecuzione, in cui per certi reati è prevista la non accessibilità alle misure alternative se il condannato non coopera.
Allo stato attuale della giustizia penale, esiste la necessità di una nuova riforma epocale?
Un check- up è sempre necessario e opportuno perchè i segni di disfunzione sono molti, come la durata del processo. Lascerei però da parte l’enfasi: meglio volare basso ma in modo sistematico, invece che sognare voli pindarici e poi fare la fine di Icaro.