Quanta sguaiataggine. Molta politica e parecchia informazione hanno dato il peggio di sé nei commenti alla sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato, ossia la distinzione tra istigazione e assistenza al suicidio.
Penso l’atteggiamento giusto sia piuttosto la composta e sofferente contemplazione del mistero della morte. Nella sua ultima lettera al nipote, l’imperatore Carlo V, Margherita d’Austria scrive: «Sto per ricevere l’ultimo regalo di Dio». La morte, non chiamiamola fine vita, è insieme al dolore il maggiore dei misteri che danno forma, sostanza e profondità alla nostra esperienza esistenziale. Gioia, nascita, felicità godono, è il caso di dirlo, di una naturalità propria, una consistenza indubitabile e auto evidente che non necessità di spiegazioni.
Morte e dolore ci interrogano in maniera non astratta ma contingente. Li incontriamo in forme diverse nella vita di ogni giorno, anche se spesso volgiamo altrove lo sguardo per non vedere, non sapere, non pensare, rifiutare di prendere in considerazione quella che è una parte di noi. Una parte necessaria e qualificante.
La questione non è se morire, o se provare dolore. La questione è piuttosto che tutti soffrono e tutti muoiono e la morte, “sorella morte corporale” scrive san Francesco, è uno dei passaggi necessari e qualificanti della vita. La posizione veramente atea è quella che sostiene la morte non esista perché il suo avvento fa scomparire il soggetto che la incontra.
L’anima credente, dubbiosamente credente come papa Francesco continua a ricordarci essere il vero fedele, riconosce la morte come propria e si interroga attorno ad essa, la immagina dono di Dio, come la vita, e non le tenta di sfuggirle. Ma chiede di viverla con consapevolezza e dignità. Nella preghiera, come insegnano i santi. Certo, c’è lo Stato, ci sono le leggi, c’è un ordinamento, soprattutto occorre tutelare i più deboli, non abbandonarli alla solitudine, allo sconforto, al dolore. Proteggere è una delle forme dell’amore. Ma non ci si può affidare solo allo Stato in queste cose, le sue leggi e la sua forza si liquefanno davanti a due occhi privati per sempre dalla luce della vita. O a due occhi che si dilatano per un dolore che non capiscono, o che non vedono altro che l’abisso della solitudine e della sofferenza.
Non è questione di obbiezione di coscienza, ma di prossimità, di non abbandonare, ma di essere vicini nel momento decisivo, di abbracciare. Se necessario in senso fisico.
Ricordo una riflessione di Enzo Bianchi sulla parabola del buon Samaritano. Il teologo sostiene che se il Samaritano, il prossimo, tutti noi, non avesse avuto modo di fare altro già moltissimo sarebbe stato tenere la mano all’uomo aggredito, “mentre scendeva da Gerusalemme a Gerico”, e essergli compagno al momento della morte.
Per tutti c’è un momento nel quale scendere da Gerusalemme a Gerico, bisogna fare sempre memoria della sua sacralità.