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Per prima cosa bisognerebbe mettersi d’accordo: il “rispetto della volontà popolare” vale solo per spartirsi le poltrone oppure anche per ottemperare alla promesse fatte agli elettori?
Perché la verità è che si tratta di un concetto da maneggiare con cura: altrimenti il rischio è di farsi male. Prendiamo i Cinquestelle. Luigi Di Maio dice che «quel che conta è la volontà popolare», e il premier «ne deve essere espressione».
Poiché l’M5S ha preso più voti di tutti, palazzo Chigi tocca a lui. In caso contrario ne risulterebbe compromessa addirittura la «credibilità della democrazia». Volontà popolare e premier: attenti ai pifferai dell’inganno
Ecco, appunto: addirittura? Magari - pacatamente e sommessamente come diceva un leader della sinistra - si potrebbe far presente al candidato premier pentastellato che se proprio di volontà popolare si deve parlare allora il discorso deve valere erga omnes e non riguardare solo gli elettori grillini. Risulterebbe così più chiaro che la volontà popolare si è dispiegata accuratamente evitando di assegnare a ciascuna forza politica e a ciascuna coalizione i numeri per essere autosufficiente in Parlamento e governare da sola.
Il che significa che non esiste nessuna investitura diretta e che se proprio si volesse individuare una spinta popolare essa va nella direzione di ricercare intese, senza prefigurare incarichi, mansioni o ruoli obbligati. Intese - possibili, probabili, irrealistiche - che peraltro avrebbero dovuto far parte dell’armamentario della campagna elettorale e che invece ogni partito, movimento o coalizione pur sapendo che mai e poi mai avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta ha accuratamente evitato di dibattere. Con la scusa che in questo caso avrebbe intaccato la propria aura di singolarità e superiorità, e con ciò magari perso voti: sottacendo tuttavia che quell’evitamento si sarebbe configurato come un inganno verso il corpo elettorale. Nessuno ha votato i Cinquestelle prefigurando un accordo con il centrodestra o il Pd; e nessuno ha votato il centrodestra affinché chiusi i seggi si unisse all’M5S. Niente del genere è stato proposto prima del 4 marzo: chi l’avesse fatto sarebbe stato considerato un autolesionista.
Così è andata. Le forze politiche hanno agito come se il campo da gioco fosse maggioritario e bipolare quando invece era proporzionale e coalizionale. Si sono turlupinati i cittadini facendo credere loro che avrebbero votato il premier quando invece era richiesta solo una delega, seppur non in bianco perché vincolata al programma. Ci arriviamo.
Quel che qui conta sottolineare è che non c’è alcuna volontà popolare da rispettare nell’indicazione di un possibile presidente del Consiglio: quella è materia che era e rimane nella disponibilità esclusiva del capo dello Stato. Ovviamente, con paletti simili, il discorso vale anche per l’aggregato di centrodestra. Il fatto che il partito che prendeva più voti avrebbe espresso il candidato premier è unicamente frutto di un patto di tipo privato sottoscritto tra i leader della coalizione: giuridicamente ( ma è scontato) e soprattutto politicamente, si fonda sull’acqua. Riprova ne è che, dopo la tormentata vicenda dell’elezione dei presidenti di Camera e Senato, il centrodestra non si presenterà alle consultazioni al Quirinale con un delegazione unitaria ma ogni partito andrà per conto suo, con propri rappresentanti. E ognuno potrà indicare Matteo Salvini se lo riterrà ma anche fare altri nomi senza che questo si configuri come un tradimento. Sono solo e unicamente le regole fissate nella legge elettorale Rosato ( che parla di “capo politico” e non certo di candidato premier) e, come detto, nella Costituzione. Tutto il resto è fuffa.
Tuttavia c’è anche un altro risvolto, fondamentale, di cui tener conto. Perchè è palese che una volontà popolare si è ovviamente manifestata nelle urne e attiene al consenso conquistato da ciascun partito o coalizione, ai rapporti di forza tra schieramenti stabiliti dai cittadini. Ma quel consenso non è stato guadagnato in virtù delle fattezze fisiche dei singoli leader, né per la bellezza dei rispettivi inni o bandiere e neppure per l’abilità oratoria mostrata nei comizi o nei talk show. Non è stato cioè un consenso consegnato al buio: affatto.
Il 33 per cento l’M5S se l’è preso in virtù della spinta al cambiamento che ha incarnato e, specificamente, del programma che ha sottoposto agli elettori. Idem la Lega e, con risultati però negativi, il Pd. Per cui se davvero rispetto della volontà popolare ci deve essere, deve risolversi nella puntuale realizzazione delle misure contenute nel programma. Chi ha votato per il reddito di cittadinanza l’ha fatto considerandolo prioritario sotto tutti i punti di vista rispetto alla flat tax. E viceversa. Come etichettare allora le circonvolute dissertazioni in atto per stemperare l’impatto e la valenza economico- finanziaria e sociale dell’uno o dell’altro o, peggio, le contorsioni per dimostrare che le due cose possono essere coniugate? Se si vuole rispettare la volontà popolare è necessario confermare quelle scelte, con il grado di flessibilità che le circostanze e il buon senso richiedono, sobbarcandosene la responsabilità. Ma mai e poi mai edulcorandole o rinviandole in un futuro indefinito. Se così invece dovesse essere, allora davvero si darebbe una spinta al disimpegno dei cittadini: altro che cambiamento.