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In questo giorni difficili che l’Italia sta attraversando, una delle parole più frequenti è connessione. Termine riferito a quella esclusivamente di tipo telematica. Connessione forzatamente utilizzata da casa per evitare il propagarsi del contagio da Coronavirus. In campo ci sono tutte le tecnologie a disposizione, comprese quelle social, facebook, instagram. La parola chiave è dunque essere connessi, rigorosamente a distanza, al mondo globale, ma anche al mondo dei sentimenti e degli affetti, dei rapporti sociali, umani e professionali. In tempi record sta avvenendo una implementazione rapida di tutti i processi innovativi che nessuna legge aveva reso di così rapida applicazione.
La prima considerazione sorge spontanea: c’era bisogno di questa apocalisse per consentire a categorie della PA, ad aziende private e professionali, di applicare in modo rapido queste modalità lavorative? Quando invece in Europa lo smart working è già una realtà definita. Con tanto di flessibilità lavorativa e di opportunità possibili. La realtà è che non solo in casi speciali è consentito lavorare da remoto. Capita spesso di ascoltare giovani che vanno a lavorare all’estero i quali alla domanda: “In assenza di nonni e genitori, all’estero come conciliate il lavoro con la famiglia?”, rispondono esprimendo un comun denominatore: il lavoro da casa.
Carlo Andrea Cattaneo, ingegnere aerospaziale che lavora alla Rolls- Royce, spiega: «Mia moglie è avvocato, mi ha seguito in Inghilterra un anno dopo che sono partito ed ora siamo in tre. Il primo figlio è nato qui a Bristol. Per entrambi, la flessibilità ci consente di avere una ottima qualità di vita familiare. Io posso lavorare da casa quando necessario senza la necessità di dispense papali». Anche Michela Toffali, senior marketing& communication, risponde così: «Ad Amsterdam tutti sono molto laid back e nella maggior parte delle aziende, alle 17 si saluta tutti e si va a casa. Fondamentale è la flessibilità nel lavoro: homeworking o remote working sono la norma. Se mio figlio sta male non devo impazzire per chiedere permessi o trovare la babysitter, mando un whatsApp al mio capo e semplicemente la informo che lavoro da casa. Gli orari di inizio e fine giornata sono flessibili, non ci sono cartellini da timbrare, la cosa importante è fare il proprio lavoro e farlo bene. Ognuno si gestisce come crede».
Piccolo florilegio di testimonianza di tanti giovani che decidono poi di restare all’estero non solo a causa degli stipendi più alti, ma proprio in virtù della flessiblità nel lavoro. E dunque è giusto chiedersi perché permane la diffidenza delle imprese, grandi e piccole, seppur innovative, a recepire questo tipo di flessibilità, offrendo la possibilità per alcuni ruoli di applicare la modalità dello smart working, senza che questo aspetto debba rappresentare una eccezionalità. Senza contare che flessibilità e lavoro da remoto possono determinare vantaggi indotti di gran rilievo. Tipo la riduzione dell’inquinamento ambientale causato dagli spostamenti in auto tra casa e lavoro, ma anche una sostanziale riduzione dello stress di stare molte ore nel traffico. L’ambiente e il clima lavorativo sono fondamentali. Per alcuni non partecipare di persona alla vita aziendale rischia di condizionare la qualità del lavoro. Forse. Però è vero che partecipandovi in modo stressato non si favorisce quell’apporto professionale necessario all’azienda. Così come appare evidente ancora l’arretratezza tecnologica della PA che non aiuta funzioni fondamentali che potrebbero essere gestite da remoto attraverso il telelavoro. E’ a partire dagli anni ’ 90 che si fanno ricerche, studi e discussioni su questo tema. Eppure i Comuni rimangono refrattari o mantengono tecnologie informatiche obsolete.
Che ostacolano la possibilità di gestire in modo efficiente i propri ruoli sia in ambiti lavorativi che da casa. Eppure “obtorto collo” Pubblica Amministrazione e aziende private hanno dovuto cambiare registro. Le Scuole di ogni ordine e grado e le Università hanno dovuto diffusamente e in modo repentino, applicare e svolgere la didattica online per i tanti studenti che frequentano, non avendo addestrato in questi anni i docenti nell’uso di queste tecnologie, ma anche non abituandoli a farne uso normalmente. Il risultato è stato un clima di panico dettato dall’emergenza con ore e ore trascorse per imparare ad interfacciarsi con gli studenti. L’Italia infatti è ben lungi dal raggiungere un livello di maturazione digitale adeguato a sfruttare appieno le proprie potenzialità. Ne sono testimonianza i risultati dello studio Ambrosetti presentati nel corso del “Technology Forum Campania 2019”, una piattaforma di discussione e confronto tra gli attori pubblici e privati. Il nostro Paese si colloca quart’ultimo in Europa per indice di digitalizzazione, con un punteggio di 44,3, mentre la media europea è di 54. La scarsa alfabetizzazione digitale dell’Italia rischia di ampliare il divario tra le diverse aree territoriali con conseguenze fortemente negative sul mercato del lavoro. Ad oggi, nelle imprese italiane, l’adozione di tecnologie digitali è inferiore rispetto agli altri Paesi europei, segno che sia le imprese che i lavoratori non sono pronti ad affrontare le sfide tecnologiche. Il Coronavirus ci ha messonella condizione di affrontare un così grave contagio e di fare i conti con l’arretratezza tecnologica di aree e sistemi organizzativi importanti, siano essi pubblici o privati. Il bilancio sconfortante è che le competenze digitali rimangono ancora poco diffuse tra la popolazione italiana.