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Draghi
UNO. Una volta c’erano i partiti. Ogni partito aveva un organo ufficiale, cioè un giornale quotidiano. Il Popolo era l’organo Dc. I comunisti avevano L’Unità e i socialisti L’Avanti. Anche i partiti minori, come il minuscolo Pri di La Malfa, erede di una tradizione di grande spessore, aveva un organo, La Voce Repubblicana.
Oggi appare tutto capovolto. I partiti non hanno più ( o quasi) l’organo ufficiale. Sono invece i giornali ad avere, sia pure non ufficialmente, un partito. Il Giornale ha Forza Italia. Il Fatto quotidiano, i 5s. Corriere, Repubblica e Stampa, pur assegnando maggiore spazio alle necessità dell’informazione, avversano i populismi e stanno attenti al Pd. A Libero e alla Verità, al contrario, populismo e centrodestra non dispiacciono. Anzi.
La realtà attuale dell’informazione, e gli inseguimenti televisivi, perseguono l’obiettivo di far crescere tirature e ascolti ormai sempre più magri. L’irruzione rivoluzionaria dei social ha scardinato il vecchio ordine. La possibilità di produrre, scambiare e condividere contenuti informativi creati dagli stessi fruitori, sembra capace di assorbire sempre maggiori seguaci. Da qui una maggiore difficoltà ad analizzare gli orientamenti politici degli elettori italiani. Non è un caso se negli ultimi anni i risultati elettorali sono apparsi sempre più scompaginati e distanti rispetto alle previsioni degli analisti fino all’exploit clamoroso, da nessuno immaginato nella sua reale dimensione, dei 5s nel 2018.
DUE. In questo quadro, quanti hanno fretta d’arrivare al voto fidando sui sondaggi, e che un giorno sì e l’altro pure chiedono elezioni subito, non è escluso siano proiettati verso grandi delusioni. In Italia tra le aree politiche e culturali di centrosinistra e centrodestra c’è (dal punto di vista matematico) una sostanziale parità che viene nascosta e sfugge perché i sondaggisti non valutano le due aree ma le rispettive alleanze a cui quelle aree riescono a dar vita. Un criterio che ormai è sempre più fragile dato che sia all’interno del centrodestra che del centrosinistra i conflitti, anche quelli non secondari, stanno crescendo spinti dalla crisi (covid) e dalla guerra (Ucraina). Questa situazione bisogna inoltre indagarla tenendo presenti fenomeni nuovi, forse nascosti dentro l’astensionismo che ha ormai assunto una dimensione inedita nella storia repubblicana. Il non voto suggerisce l’ipotesi che sia nutrito non solo, né soprattutto, dalla disperazione dei ceti più disagiati, ma anche da energie politiche e culturali vivaci che non trovano offerte politiche adeguate alle rotture più recenti del nostro tempo storico.
TRE. Al momento c’è grande confusione tra le forze entrate in parlamento nel 2018. Né sappiamo quali difficoltà si accumuleranno in Italia per conseguenza della campagna elettorale in cui la quasi totalità dei parlamentari sono già attivamente impegnati. La gran parte dell’area sovranista appare in grande sommovimento. Secondo i sondaggi la Lega di Salvini continua a perdere consenso a favore di Fratelli d’Italia. Mentre appare fortemente ridimensionato il M5S diretto dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che con maggiore radicalità sta tentando di uscire dalla crisi strutturale del suo partito che i sondaggi danno attorno al 10 per cento dopo aver subito la consistente (e non conclusa) scissione di Di Maio.
Ma l’interrogativo più consistente sul prossimo voto degli italiani, perché potrebbe cambiarne il segno, è il destino di quella che gli analisti indicano come “area Draghi” che è un fenomeno che ha elementi inediti nella storia della Repubblica e che nessuno sa quanto e come potrebbe pesare. Intanto va precisato (e chiedo scusa al direttore di questo giornale se lo scrivo per la quinta volta consecutiva a partire dal giorno successivo in cui Draghi ottenne la fiducia) l’area Draghi non verrà mai proposta né indicata o sponsorizzata dal leader da cui prende il nome. Questa area non si presenterà come una forza organizzata ed esiste a prescindere dalla volontà dell’involontariamente coinvolto Presidente del Consiglio.
Ma procediamo con ordine. Draghi ha avvertito con chiarezza che il governo da lui presieduto, per quel che lo riguarda è l’unico e l’ultimo di questa legislatura. Significa che come Presidente del consiglio lui è lì e ci resta. Ma anche che se il governo salta lui non c’è più. Nei giorni scorsi Alessandra Ghisleri, sondaggista molto attenta ai destini di Berlusconi e del centrodestra, ha rilasciato un’ampia intervista a Libero che l’ha sparata in prima con un titolo che racconta un premier (Draghi) in caduta, anche perché, dice la Ghisleri «la fiducia in SuperMario è scesa dal 60 al 48» e Draghi non è tollerato da 2 grillini su tre e da 3 leghisti su 5. Ma la parte più interessante della sondaggista è là dove riferendosi a Draghi avverte: «La fiducia di 1 italiano su 2 è un dato molto alto. D’altro canto la fiducia nei confronti del governo nel suo complesso viaggia parallelamente a quella di Draghi, ma 10 punti più sotto, attorno al 40 per cento: un dato buono … nell’aprile ’ 22 ha toccato anche punte del 50 per cento mentre Draghi stava al 55 per cento». E ancora, secondo al sondaggista la fiducia dell’elettorato leghista per Draghi è del 40 per cento.
Insomma, esiste un’aria d’opinione rilevante a favore di Draghi che, del resto, gli specialisti hanno da tempo intercettata. Problema: come, quanto e in che modo quest’area peserà sul prossimo risultato elettorale? L’area Draghi non sarà strutturata, quindi nessuno se ne potrà impadronire. Ma probabilmente potrebbe decidere il risultato elettorale dato che, secondo i dati, al momento centrodestra e centrosinistra rappresentato aree pressoché uguali. Al netto di eventuali notevoli novità l’area Draghi dovrebbe orientarsi a sostenere il partito o l’aggregazione che avverte più vicina a quella dell’attuale presidente del Consiglio che, al momento del voto potrebbe anche non essere più Draghi. In questa ipotesi un centrosinistra capace di liberarsi dall’alleanza coi 5S potrebbe vincer la partita.