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Ci si può domandare se sia per ironia o per miopia che il governo turco ha dato il nome di “Sorgente di pace” ( Peace Spring) alle incursioni turche nel territorio siriano del Rojava, dove i curdi hanno organizzato uno stato autonomo su principi di democrazia più solidi che altrove in quel quadrante del mondo. Ironia, se il termine è usato con la consapevolezza di iniziare una vera e propria guerra; miopia, se tale consapevolezza manca e non si riesce a cogliere come da questa aggressione possa scaturire un incendio in tutto il medio oriente. Il satrapo Erdogan continua a chiamarle incursioni, ma ciò che ha già avuto inizio è una vera e propria guerra contro lo stato e l’etnia curdi in Siria: bombardamenti a tappeto sui civili curdi ( ma non solo) e risposta di questi; decine di migliaia di sfollati in poco più di due giorni; anche villaggi e cittadine turche colpite dai mortai curtdi, ma soprattutto dagli errori del fuoco amico.
Tempo addietro, ero in Turchia e mi spinsi fino al confine con la Siria, a Nusaybin nella provincia di Mardin, per seguire un processo contro un avvocato. In quella zona si incontra, lungo la statale, numerosi villaggi o tendopoli allestiti dalla Turchia per concentrarvi i rifugiati siriani. Naturalmente non potei entrare in questi campi che sono sotto la stretta sorveglianza dei militari, ma non è stato difficile incontrare alcuni rifugiati. Mi sono sembrati gente acculturata o magari lavoratori agricoli che avevano tutti gli occhi puntati sul rientro alle proprie case o alle rovine delle proprie case da ricostruire, ad Aleppo o in altre cittadine, non certo nel territorio desertico del Rojava che conta 600.000 abitanti che rimarrebbero sconvolti dall’insediamento di un milione e mezzo di rifugiati, impossibilitati a trovare qualunque occupazione. Il rientro in Siria per loro non sarà mai un accampamento nel deserto nel nord del paese. Essi vogliono ostinatamente tornare alla propria città o al proprio villaggio.
È chiaro invece a cosa punta il governo di Ankara: disfarsi dei 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani presenti in Turchia nella zona prospiciente il confine con la Siria. Prima questi rifugiati hanno costituito una fonte di ricchezza: tutti ricordiamo i soldi pagati dall’Europa, su richiesta della Merkel, perché la Turchia li trattenesse bloccando la via verso la Grecia e i Balcani. Poi ha lasciato che molti esodassero verso i lager delle isole greche dell’egeo orientale. Ora Erdogan si ripropone di piazzarne un milione e mezzo in una fascia di 20 km siriana “liberata” dai curdi, il resto deportandoli più a sud ancora, fino a Dar ez- Zor. Ma questo displacement, con annessa pulizia etnica ( nei confronti dei curdi), è operazione assolutamente vietata dalle norme di diritto internazionale e dalle direttive ONU. E il sultano potrebbe essere chiamato a risponderne prima o poi di fronte alla Corte dell’Aja. Ma la storia si ripete per i governi turchi: Der ez- Zor fu anche la mèta finale della tragica marcia dell’esodo dell’olocausto armeno nel 1015.
Si intende poi sconfiggere e disperdere l’esperienza democratica del Rojava per, innanzitutto, indebolire i curdi, anche i milioni di curdi nel sud est della Turchia, che, da un lato, in tema di democrazia sono stati un esempio per i curdi siriani, e, viceversa, vedono nelle zone curde autonome presenti in Siria ed in Iraq come un forte incentivo alle richieste di autonomia anche per se stessi, curdi turchi. La guerra di Erdogan: mira insomma non solo a scompaginare il nuovo stato curdo, ma anche a cancellare una esperienza di democrazia considerata molto pericolosa.
Ma essa ha anche un obiettivo strettamente interno per il governo turco: far passare in secondo piano il più grave problema del paese, una crisi economica devastante cui si aggiunge un deficit di democrazia di cui il popolo turco inizia a prendere coscienza. Dinnanzi ad una guerra il popolo di una nazione tende a compattarsi attorno all’impresa, sottacendo le altre questioni e divisioni. Infatti, nel voto sulla mozione di appoggio all’iniziativa governativa, il Partito Repubblicano ( CHP), che avrebbe dovuto prefigurare il ricambio rispetto al partito di Erdogan ( AKP), un po' come è accaduto nelle recenti elezioni amministrative di Instabul, si è appiattito e ha votato a favore (“sia pure col voltastomaco”, ha commentato qualche parlamentare del CHP). L’HDP ( il partito curdo e di sinistra) è rimasto l’unico all’opposizione nel voto.
Intanto, come si atteggia l’opinione dei politici a livello internazionale, di fronte ad uno scontro e un focolaio destinati a durare nel tempo? Junker e la Merkel hanno fermamente condannato l’iniziativa. I governi europei stanno interpellando i rispettivi ambasciatori turchi; la Nato, invece, sta coprendo l’iniziativa, purché essa sia “proporzionata” essendo la Turchia il paese con gli armamenti più forti di tutta la coalizione. Gli Usa di Trump si muovono a suon di tweet, ambivalenti e in parte contraddittori: Trump prima ha dato il proprio benestare alla guerra ( certamente concordata per telefono o via ambasciate con Erdogan), poi, vista la reazione del Pentagono, ha fatto una molto parziale marcia indietro; ma non vi è dubbio che, quando saremo al dunque, appoggerà l’impresa, scordandosi degli alleati curdi di ieri. I quali, chiederanno, per reazione, l’appoggio di Assad, oppure ricorreranno al terrorismo, e l’intera area si incendierà. Investendo Israele da una parte e l’Iran dall’altra. Purtroppo questa è la facile, ma drammatica previsione.
* Osservatore Internazionale dell’UCPI